Chi ha collaborato con La Repubblica, da oggi orfana di Eugenio Scalfari, ricorderà come chiamavano la riunione di redazione della mattina...
Eugenio Scalfari, che ultimamente aveva proclamato il suo disinteresse per la politica, soppiantato da quella per la figura di Papa Francesco, si ritrova in occasione della sua scomparsa, un po’ messo da parte da quella ‘politique politicienne’ di cui, certamente, non era stato un estimatore. La notizia della sua morte coincide, infatti, con le dimissioni del Governo Draghi, uno degli episodi più sconcertanti della sia pur travagliata storia parlamentare dell’Italia del secondo dopoguerra.
Scalfari, così come Indro Montanelli, è stata una delle figure fondamentali del giornalismo italiano, anche se il secondo riteneva che il fondatore di Repubblica fosse più un imprenditore che un giornalista. La Repubblica che, come ha ricordato Natalia Aspesi, firma storica del quotidiano, quasi coetanea di Scalfari, nacque con un’autonomia finanziaria di 3 anni. "Se ce la faremo si andrà avanti, se no no", accolse il primo nucleo di redattori del nuovo quotidiano, molti dei quali provenienti dal Giorno, quel direttore poco più che 50enne, fama di bon vivant oltre che uomo di cultura e di buone letture, con amici del calibro di Italo Calvino. Era il 1976, Eugenio Scalfari, un liberal che si era fatto le ossa al settimanale Il Mondo, che aveva fondato L’Espresso, riteneva ci fosse spazio, in Italia, per un quotidiano che fosse in grado di approfondire le notizie. Un pò sul modello di Le Monde.
Inizialmente, non a caso, La Repubblica non usciva il lunedì e non aveva una pagina sportiva. Più avanti, per non farsi mancare niente, quando passati i fatidici 3 anni il quotidiano iniziò a macinare utili, entrando addirittura in borsa, Scalfari ingaggiò Gianni Brera, il principe dei giornalisti sportivi italiani. Il quale si ritrovò in quel parterre de roi che era diventata la redazione di Repubblica. Un’orchestra fatta spesso di prime donne, che il direttore sapeva dirigere con armonia. Anche se per i neofiti come il sottoscritto quell’uomo alto ed elegante, con quella barba che sprizzava autorevolezza, incuteva non poca soggezione. E per chi ha collaborato con La Repubblica, se dalla ‘messa cantata’ con cui veniva denominata la riunione di redazione della mattina, arrivava un apprezzamento di ‘Barbapapà’, ebbene soprattutto se si era un giovane cronista, ciò suscitava una grande emozione. Come pure ci si amareggiava quando il vocione di Nando Ceccarini, il responsabile della Cronaca, ti trasmetteva il rimprovero del direttore per un buco. Mi capitò, e me lo ricorderò per sempre, con la strage compiuta da Emilio Criscione, il 4 marzo del ‘92.
Scalfari, oltre che un grande successo editoriale, grazie al quotidiano da lui fondato, ottenne pure una montagna di soldi, quando nell’87 lo vendette a Carlo de Benedetti. Nove anni dopo lasciò la direzione a Ezio Mauro, che non poteva essere migliore erede di ‘Barbapapà’, visto che con lui La Repubblica ha continuato a prosperare, restando un giornale autorevole.