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La Russia non c’è, la Russia vince: dasvidania Wimbledon

Il torneo, proibito agli atleti russi, è stato vinto tra le donne da Rybakina, nata a Mosca e kazaka solo da 4 anni. Mondo liquido-vecchia politica 6-0

Elena Rybakina dopo il trionfo a Wimbledon (Keystone)
11 luglio 2022
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Il mondo liquido ha le sue ragioni che la ragion di Stato non conosce. E quel satanasso di Boris Johnson è andato a vendere pentole anche a Wimbledon, dimenticandosi al solito i coperchi.

Il torneo di tennis più importante del mondo, che quest’anno la politica (senza esporsi, ma la politica fatta con la faccia e il coraggio degli altri ha una tradizione perfino più lunga di Wimbledon) aveva vietato a giocatrici e giocatori di nazionalità russa e bielorussa, è stato vinto da Elena Rybakina, nata a Mosca il 17 giugno 1999 da genitori russi e che russa è stata per la maggior parte della sua vita, fino a quattro anni fa.


Rybakina in campo al Roland Garros con i colori della bandiera russa (Keystone)

Russa, evidentemente, lo è ancora, visto che il passaporto si cancella, ma il passato no, e lei stessa – a domanda precisa, subito dopo il trionfo – non ha fatto nulla per cancellarlo ("condannare la guerra? La Russia? Non so, non capisco. Non parlo bene inglese").

Dal 2018 ha però la cittadinanza kazaka, per uno dei tanti motivi per cui il mondo, le sue storie e le sue opportunità sono spesso più grandi della politica e dei suoi confini, soprattutto se sei bravo a fare qualcosa. In Russia era difficile per Rybakina trovare le strutture adeguate per fare un salto di qualità nel tennis professionistico e così si è trovata davanti a un bivio: Stati Uniti o Kazakistan. Lo Zio Sam e Nursultan Nazarbaev, padre padrone dell’ex repubblica sovietica, le offrivano ciò di cui aveva bisogno. Ha scelto l’est, anziché l’ovest (una volta era quasi una scelta obbligata, basti pensare agli "americani" Martina Navratilova e Ivan Lendl). Il prezzo da pagare era un passaporto nuovo: non più russa, ma kazaka. Una forzatura, certo. Non una novità: il Kazakistan, come ad esempio il Qatar, ha da tempo attivato naturalizzazioni facili per sportivi talentuosi di nazioni più povere o con meno interesse a lanciarli.


Nursultan Nazarbaev attorniato da bandiere kazake (Keystone)

Liquidi i passaporti, liquida la vita, soprattutto quella dei tennisti. Nello sport moderno non esistono atleti più internazionali di loro, quasi degli apolidi per forza, sempre in giro tra aerei, hotel, trasferimenti e tornei che un giorno si giocano qui, un altro chissadove. Anche il tifo nel tennis è il più internazionale che ci sia: tra i fan più sfegatati di Federer o Nadal non ci sono solo svizzeri o spagnoli.

Alle nazioni resta ormai solo quell’angolino, sempre più stretto, chiamato Coppa Davis, in cui tornano davvero protagonisti lo spirito patriottico e le bandiere. E in controluce, nella sventolante bandiera kazaka di Rybakina nel cielo di Wimbledon è impossibile non vedere il tricolore russo che Londra avrebbe voluto tener lontano per cause di forza maggiore. Speravano che quella decisione passasse il più possibile sotto silenzio, o fosse perlomeno condivisa, invece si erano ribellati i sindacati dei tennisti (Atp e Wta) e anche i giocatori stessi, star (Djokovic, Nadal) comprese.


Una bandiera russa sugli spalti di Wimbledon (Keystone)

Intanto il presidente della Federtennis russa, Shamil Tarpischev, non ha perso tempo, dichiarando: "Abbiamo vinto Wimbledon". Insomma, Johnson – nel frattempo silurato dal suo stesso partito – è rimasto col cerino in mano. Ma a lui e agli ideatori dello Slam vietato ai russi poteva andare anche peggio. Poteva vincere l’altra tennista nata a Mosca e naturalizzata kazaka sorteggiata nel tabellone femminile. Il suo nome? Yulia Putintseva.

Arrivederci Wimbledon. Anzi, dasvidania.


Yulia Putintseva, altra russa con passaporto kazako (Keystone)