Le motivazioni della sanzione a una delle aziende di Ticino Manufacturing per aver aggirato il salario minimo lasciano aperta la questione politica
Un preside con lo sguardo corrucciato, che si massaggia il viso con una mano mentre contempla la pagella dell’alunno somaro che ha di fronte. Sospira, fissa lo sguardo in quello del poveretto ed esordisce con tono un po’ severo, un po’ dispiaciuto: "Guardi, non so neanche da che parte cominciare…". Lo si immagina più o meno così, l’ispettore del lavoro che nei giorni scorsi ha comunicato il suo rapporto a una delle aziende del ‘sistema Tisin’, la sgangherata chimera sindacal-padronale tirata su l’anno scorso per aggirare la nuova legge sul salario minimo.
Le tre paginette di conclusioni contengono quello che possiamo pacatamente definire un immane cazziatone. All’associazione paraleghista si contesta di non potersi qualificare come partner sociale, data una rappresentatività "parecchio lacunosa" e il fatto di avere solo un centinaio di affiliati "in non meglio precisati settori economici". All’azienda invece si dice chiaro e tondo che deve applicare il salario minimo e che la concertazione non si fa così: non si può mettere in mano un contratto già pronto ai lavoratori, firma e taci; non si può avere la direzione schierata lì davanti mentre i poveretti sono chiamati a esprimersi per alzata di mano; non li si può neanche ricattare con la minaccia "o così, o chiudo". La conclusione del Signor preside è chiara: "Abuso di diritto".
Si chiude dunque – salvo improvvidi ricorsi – il mesto spettacolino d’un sindacato sorto per partenogenesi dalla fervida mente leghista. Certo, resta la sua reincarnazione sotto altro nome e senza più i politici, ma insomma: è ragionevole prevedere che anche il ‘Sindacato libero della Svizzera italiana’, libero com’è soprattutto da qualsiasi credibilità, vada verso la bocciatura. Il che è ovviamente positivo, specie in un contesto difficile come quello ticinese, segnato dal dumping e da certi soggetti che paiono gli allibratori d’un ippodromo di provincia. Non sarà poi il salario minimo a guarire il cantone da tutti i suoi acciacchi, ma intanto sappiamo una volta per tutte che questi giochini delle tre carte sono illegittimi e sanzionabili.
Adesso che la questione è (quasi) risolta dentro le fabbriche, però, non sarebbe male sentire qualche cinguettìo anche dalla politica. Perché ai vertici di TiSin non c’erano due rappresentanti qualsiasi: Boris Bignasca è capogruppo leghista in Gran Consiglio, è a sua volta imprenditore – alla faccia del conflitto d’interessi rispetto al ruolo ‘sindacale’ – ed è figlio del mitico fondatore del partito. Sabrina Aldi è la sua vice, è avvocata e siede nella Commissione Giustizia e Diritti. Il mese scorso i due si sono sfilati dal sindacato alla chetichella, senza dir nulla e sperando che nessuno se ne accorgesse (li sgamammo in un paio d’ore leggendo il Foglio Ufficiale, una cosa imbarazzante perfino per noi giornalisti).
Ecco: da quella politica lì – quella del ‘prima i nostri’ ma poi aiutiamo i padronazzi a spremere i frontalieri, del patriottismo come belletto per nascondere certi maneggi – vorremmo sapere se si ritenga ancora legittimata e credibile. Dopotutto anche la Lega aveva votato la legge sul salario minimo che poi ha cercato di schivare, il che fa venire qualche dubbio sul rispetto di certi doveri di rappresentanza, se non proprio di coerenza. Chissà poi fino a quando certe cose continueranno a sembrare normali. Povero preside.