L’autorità contesta a un’azienda la legittimità del contratto stipulato insieme al sedicente sindacato leghista per aggirare il salario minimo
TiSin non è un sindacato, il contratto che ha elaborato insieme all’associazione padronale Ticino Manufacturing mira chiaramente a eludere il salario minimo, le modalità di firma sotto il ricatto di chiusura dell’azienda sono inammissibili, l’azienda stessa dovrà pagare una sanzione e rifondare il dovuto ai suoi operai. Stavolta è l’Ispettorato del lavoro a stigmatizzare senza mezzi termini la condotta del sedicente (fu) sindacato leghista e della sua controparte imprenditoriale. Tre paginette di rapporto indirizzate a un’impresa del Mendrisiotto, pur protetta dagli omissis nella copia che abbiamo potuto leggere. Un ‘verdetto’ col quale l’autorità di controllo consolida la portata della nuova legge, che potrebbe anche rivelarsi salvifico per chi, rifiutandosi di firmare, è stato licenziato da una delle aziende coinvolte (ne parliamo qui).
L’Ispettorato del lavoro ci va giù duro. "Il salario minimo" – 19,32 franchi contro i 16,02 offerti alle maestranze – "è alla presente fattispecie applicabile". "L’associazione TiSin, nel caso concreto, non adempie le condizioni minime dedotte da dottrina e giurisprudenza per attribuire a quest’ultima la qualifica di partner sociale". E ancora: "La rappresentatività dell’associazione TiSin, al momento della sottoscrizione del Contratto collettivo di lavoro, era parecchio lacunosa rispetto agli standard desunti dalla dottrina e giurisprudenza", soprattutto perché contava solo cento iscritti "in non meglio precisati settori economici". Peggio: "Il criterio d’indipendenza dell’associazione TiSin non è dato in quanto tutti i membri del Comitato direttivo sono anche imprenditori", sicché addio indipendenza.
Neanche le modalità di sottoscrizione sono piaciute agli ispettori, che notano come il contratto sia stato messo in mano agli operai come una sorta di fait accompli, senza tenere in conto l’ipotesi di "lavoratori dissidenti" che rifiutassero l’affiliazione a TiSin e alla "presenza del datore di lavoro durante le assemblee di presentazione del contratto e, soprattutto, al momento della votazione per alzata di mano", tutti segni che "evidenziano inequivocabilmente la mancanza di libertà di scelta". Peraltro – e qui chi redige il rapporto, per essere ancora più chiaro, ricorre alla sottolineatura – ai dipendenti è stato spiegato che i salari sotto il minimo "permettono di garantire la continuità dell’attività aziendale e il mantenimento dei posti di lavoro", un approccio minestra-o-finestra che "ha evidentemente influito sulla libertà di scelta di partecipazione alla convenzione, inficiandone la validità".
Impugnando la giurisprudenza, l’Ispettorato deve perfino ricordare che "scopo di un contratto collettivo di lavoro è quello di proteggere la parte più debole" e "non quello di utilizzare impropriamente questo strumento per sottrarsi al campo di applicazione della Legge sul salario minimo". La conclusione, lapidaria: "Vi è abuso di diritto laddove un determinato istituto giuridico viene utilizzato in maniera manifestamente contraria allo scopo per il quale è stato creato".
L’impresa dovrà ora saldare una sanzione amministrativa pari al 160% della differenza tra salario versato e salario minimo legale, un importo che sarà dimezzato in caso di integrazione retroattiva degli stipendi.
Lo scandalo TiSin era scoppiato lo scorso settembre, quando ‘laRegione’ aveva dato notizia del contratto collettivo di lavoro che almeno tre aziende del Mendrisiotto – riunite sotto il ‘cappello’ dell’associazione Ticino Manufacturing – stavano cercando di far firmare ai propri dipendenti con l’ausilio di TiSin. Ovvero un’associazione con sede in via Monte Boglia, la stessa della Lega dei Ticinesi, che comprendeva nel suo direttivo, accanto all’ex sindacalista Nando Ceruso, i due granconsiglieri Sabrina Aldi e Boris Bignasca. Il Ccl prevedeva retribuzioni ben inferiori a quelle previste dalla legge sul salario minimo che sarebbe entrata in vigore di lì a poco, e tentava di avvalersi di un’eccezione contemplata dalla legge stessa: il salario minimo non si applicherebbe laddove esistano già contratti collettivi in essere. Nel frattempo, Bignasca e Aldi hanno lasciato l’associazione, rinominata ora ‘Sindacato libero della Svizzera italiana’. Martedì la Commissione tripartita in materia di libera circolazione delle persone – l’organo che riunisce autorità cantonali, associazioni imprenditoriali e sindacati per prevenire e sanzionare abusi – ha riferito di sole sette aziende multate per oltre 2mila franchi (su un totale d’una cinquantina di violazioni perlopiù minori, il 3% delle attività controllate). A questo punto, a quanto pare, tra queste ce n’è almeno una rimasta invischiata nell’‘operazione TiSin’: potrà decidere di ricorrere – chiamando a esprimersi il Consiglio di Stato, e la sanzione dell’Ispettorato non determina di per sé la decadenza del contratto, ma in caso di violazioni ripetute il rischio è che si vada nel penale.