Commento

Al Consiglio di sicurezza la Svizzera si mette alla prova

Il seggio di membro non permanente per il biennio 2023/2024 è anche un test per la politica di neutralità in corso di ridefinizione

Il presidente della Confederazione Ignazio Cassis a New York per il voto dell’Assemblea generale dell’Onu
(Keystone)
10 giugno 2022
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Da un lato il Cicr, la ‘Ginevra internazionale’, con la sede europea delle Nazioni Unite, le agenzie specializzate dell’Onu e le Ong che vi gravitano attorno; dall’altro la sempre circospetta politica estera di un Paese che si vuole nonostante tutto neutrale, indipendente. "La Svizzera, o l’arte di essere in contatto col mondo senza veramente parteciparvi", ha scritto ‘Le Temps’. Per il quotidiano ginevrino, l’elezione al Consiglio di sicurezza dell’Onu è "l’ultima tappa della sua normalizzazione", "la fine di un’eccezione".

Davvero? La scontata elezione avvenuta giovedì a New York (vedi pagina 3) è sì un momento rilevante nella storia della Confederazione. Ma la pietra miliare resta l’adesione decisa nel 2002 da popolo e Cantoni, culmine di un lungo e sofferto processo di avvicinamento alle Nazioni Unite, avviato in piena Guerra fredda e non privo di battute d’arresto (il ‘no’ popolare del 1986). Sarebbe sbagliato pensare a una cesura, a un prima e a un dopo l’entrata della piccola Svizzera nella corte delle grandi potenze. Non saranno due anni da membro non permanente del Consiglio di sicurezza – organo del quale peraltro già applica tutte le risoluzioni – a stravolgere una politica estera consolidata e tutto sommato ancora ben riconoscibile sulla scena internazionale.

La guerra in Ucraina, con un Consiglio di sicurezza tagliato fuori dai giochi a causa del veto russo; l’acceso dibattito sulla neutralità elvetica; quello riapertosi di recente sull’esportazione di armi; la scelta di aumentare le spese militari: l’ingresso della Svizzera nell’organo più influente dell’Onu giunge però in un contesto – internazionale, ma anche interno – assai fluido e in ogni caso molto diverso da quello del 2011, quando Berna annunciò la candidatura; e anche da quello del 2006, quando l’allora ministra degli Esteri Micheline Calmy-Rey affermò: «Chissà, forse un giorno saremo persino abbastanza sicuri di noi da candidarci per un seggio nel Consiglio di sicurezza».

Quel giorno arrivò relativamente presto. E oggi, 11 anni dopo, la Svizzera pare più che sicura di sé. «Siamo pronti», afferma l’ambasciatrice all’Onu Pascale Baeriswyl. Al Dipartimento federale degli affari esteri i lavori sono stati fatti come si deve: la candidatura è stata minuziosamente preparata. E il Parlamento ha avuto più d’una occasione per dire la sua. Ora che ci siamo, però, le difficoltà non mancheranno. Per due anni la Svizzera sarà sotto i riflettori, esposta più che mai alle pressioni dei ‘grandi’. Abituato ai ritmi lenti della politica elvetica, un Consiglio federale dimostratosi negli ultimi tempi piuttosto pachidermico in situazioni di stress, dovrà prendere posizione in modo chiaro e nel giro di poche ore su crisi politiche, conflitti, sanzioni, invio di caschi blu, corridoi umanitari e via dicendo. Decisioni delicate lo attendono. Potrà astenersi, ma poi dovrà essere in grado di spiegare bene per quali ragioni lo fa.

D’altro canto, la Svizzera avrà una rara opportunità di dimostrare anche ai vertici dell’Onu quanto ha da offrire: una preziosa competenza in ambiti come i buoni uffici, la promozione della pace e soprattutto del diritto umanitario, oltre che un rinnovato impegno a riformare il Consiglio di sicurezza, anche spingendo per un ricorso più moderato al diritto di veto da parte dei cinque membri permanenti in caso di genocidio, crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazionale. Forse non è granché, forse servirà a poco. Ma vent’anni dopo l’adesione, nel pieno di un benvenuto dibattito sul futuro della neutralità, non mettersi alla prova sarebbe stato un peccato.