Il ministro degli Esteri russo ricorda agli sbadati e agli ipocriti che a decidere la pace è l’equilibro delle forze in campo
"Tutto si concluderà con un trattato. Ma i suoi parametri saranno determinati dallo stadio al quale si troveranno le ostilità al momento in cui questo trattato diventerà realtà". A molti può sembrare un’ovvietà, quella che il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha consegnato l’altra sera ai telespettatori del suo Paese. Eppure parecchi osservatori ragionano come se guerra e diplomazia si escludessero a vicenda, sicché o ci si bombarda o "ci si parla", qualunque cosa ciò significhi. Sentendoli sembra quasi di vederlo sogghignare, il vecchio Lavrov, lucido e feroce stratega della Realpolitik: sa benissimo, lui, che la diplomazia non è una formuletta magica, un sim sala bim per tirar fuori la colomba della pace dal cilindro della geopolitica, altro termine talmente liso da significare tutto e nulla.
Una guerra ritornata nel cuore dell’Europa, combattuta con gli stessi metodi e le stesse atrocità d’un insanguinato Novecento, ci ricorda invece che a decidere l’esito di qualsiasi conflitto è un bilancio tra violenza e resistenza, in cui "i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano", come ricordava Tucidide; e che solo un riequilibrio sul campo può salvare gli ucraini dal destino dei piccoli Meli, passati a fil di spada dagli Ateniesi. Per questo è giusto armare la resistenza, come gli ucraini in primis ci implorano di fare. Questo non significa però che si possa andare avanti così per sempre, continuando a spedire tank, lanciarazzi e munizioni senza preoccuparsi di tutto il resto, dai rischi di escalation alla direzione che devono prendere il progetto europeo e l’alleanza atlantica.
Il ‘balance of power’, l’equilibrio di potere che preordina le relazioni internazionali, pesa insieme ai missili anche i denari. Dunque armare la resistenza e scaldarsi col gas russo – finanziando così la guerra di Putin – è puro tartufismo: lo sanno tutti quei leader che ora si affrettano a cercare fonti alternative, ma fino a pochi mesi fa spergiuravano che andava bene così, che la loro non era sudditanza energetica ma "interdipendenza". Invece il "Wandel durch Handel", il tentativo di esportare la democrazia attraverso il commercio decantato da Schröder e Merkel, ci ha esposto a un brutale ritorno di fiamma.
Nella risposta a queste contraddizioni l’Europa arriva in ritardo. Oltre ai divergenti interessi nazionali, la frena ancora il genio guastatori di chi nega la responsabilità russa o la mette sullo stesso piano di quella occidentale. Così – tra difficoltà oggettive, dubbi più o meno legittimi, sbiaditi diorami ideologici e distrazioni di comodo – per l’Ucraina e il continente la seconda fase della guerra rischia di rivelarsi più pericolosa della prima. Il Donbass, le regioni meridionali, perfino la Transnistria: terre da sacrificare alla schiavitù pur di non perdere nemmeno un punticino del Pil di Berlino o di Parigi (né di Berna, inevitabilmente satellitare rispetto alle decisioni continentali). Bocconi da gettare al coccodrillo nella speranza che ci mangi per ultimi, per dirla con Churchill, o ancora un modo per "pagare il pizzo in geografia alla Russia", come da mordace consiglio del maggiore Pirro Graziani Cadorna. Lo "stratega televisivo del Terzo reggimento divanato Paguri del Piave", inventato dal geniale Andrea Pennacchi, non è solo la caricatura perfetta di certi manutengoli putiniani. È anche l’effigie grottesca di chi, spesso per cinico tornaconto, non accetta di affrontare sul serio la Realpolitik moscovita. E Lavrov ride.