Genoni batte Schlegel nella guerra dei nervi. Ma per essere i primi della classe non basta la calma del miglior portiere, se non c’è profondità e talento
L’onestà è nelle parole. Quel «oggi come oggi, lo Zugo è molto meglio di noi», sganciato da Hnat Domenichelli giovedì sera ai microfoni della diretta tivù, spiega bene la parte di verità che ancora manca, dopo quel 4-0 nei quarti che a prima vista non lascia spazio ad alcuna riflessione. Vero è che se al Lugano quelle quattro sberle bruciano, è semplicemente perché non le avrebbe meritate. Tuttavia, foss’anche finita 4-1 o persino 4-2 quella serie, il discorso sarebbe stato il medesimo: contro uno Zugo che, apparentemente almeno, da ciò che si è intuito in questi giorni, non ha un difetto neppure a cercarlo col microscopio, il Lugano per sperare di ottenere qualcosa in più avrebbe dovuto costantemente giocare al di sopra delle proprie possibilità, sperando al contempo che il suo avversario prendesse uno spavento tale da scendere in pista con la paura nel cuore. Invece è successo l’esatto contrario: anche quando hanno dubitato – perché è successo, specialmente in gara 1 e gara 3, caso vuole sempre alla Bossard Arena – i campioni hanno sempre saputo cavarsela. Affidandosi a un powerplay micidiale, a una risolutezza sotto porta da far invidia a chiunque, a una disciplina estrema e una gestione delle partite a dir poco esemplare. Per non parlare, poi, di tale Leonardo Genoni, ragazzo già calmo di suo che quando indossa i gambali si trasforma in una specie di monaco zen col bastone da hockey in mano. Infatti non è solo questione di classe, bensì anche di testa: nella serie con il Lugano la sua percentuale di parate sfiora il 95 per cento, mentre quella di Niklas Schlegel è dell’85,59% appena. Per un portiere dall’indiscutibile talento di Schlegel si tratta della cifra più bassa delle quattro serie di playoff giocate tra il 2017 e il 2022 con le maglie di Zsc prima e Lugano poi: in una sola occasione – ovvero ai quarti del 2017, persi proprio contro il Lugano – ha superato la soglia del 90%, pur fermandosi a quota 91,9%. In altre parole, se c’era una guerra di nervi a vincerla è stato senz’altro Genoni. Tuttavia, quanto siano determinanti a Lugano le parate di Schlegel lo dimostrano i due infortuni (cosa più unica che rara nella stagione di un portiere) che l’hanno costretto a saltare quasi metà regular season: sarà anche difficile basare ragionamenti sui se e sui ma, ma si può comunque ritenere plausibile l’ipotesi che senza quelle 11 sconfitte in 14 partite tra ottobre e novembre, coincise proprio col primo infortunio di Schlegel, il Lugano a fine marzo avrebbe evitato i preplayoff, e di conseguenza pure lo Zugo nei quarti.
In ogni caso, dire che lo Zugo è Leonardo Genoni è altamente riduttivo. Parliamo pur sempre di una squadra infarcita di talento, che segna in qualsiasi momento e da qualsiasi posizione, e può permettersi di schierare in terza linea gente come Herzog e Zehnder. Profondità quindi, siccome ai giorni nostri per vincere non basta più avere due linee che segnano, ma pure tanto estro: un po’ artisti e un po’ campioni, ecco cosa bisogna essere per primeggiare. Persino nei playoff i muscoli vengono dopo, a quanto pare.
«Vogliamo vincere un titolo, e lo vogliamo fare nei prossimi tre, cinque anni al massimo» disse il Ceo del Lugano Marco Werder, sette mesi or sono. E il Lugano in questi giorni ha avuto un buon esempio di come si possa fare per arrivare in alto. Pur se quella dello Zugo è solo una ricetta, mentre magari Hnat Domenichelli in testa ne ha delle altre. Resta il fatto che la prossima sarà la seconda stagione con Chris McSorley in panchina, quindi la prima effettiva con la squadra plasmata a sua immagine e somiglianza (presumibilmente, almeno) e già la quarta con Domenichelli nel ruolo di general manager, ma soprattutto la prima senza Alessandro Chiesa, il gladiatore, unica pedina rimasta sulla scacchiera dell’ultimo Lugano da titolo, quello del 2006. Si chiude un altro capitolo insomma, aspettando nuove idee per scrivere il prossimo.