Riflessioni dopo il ‘non luogo a procedere’ sul caso delle molestie nell’ambito dell’associazione ciechi e ipovedenti della Svizzera italiana
In questa vicenda c’è più buio che negli occhi di chi non può vedere. Fra le pieghe della storia di Unitas, l’associazione per ciechi e ipovedenti della Svizzera italiana, le ombre oggi restano molte e le luci poche. Soprattutto dopo che la prescrizione per il reato di molestie sessuali ne ha minato la credibilità e la trasparenza. Il ‘non luogo a procedere’, deciso dal Ministero pubblico per scadenza dei termini di querela di parte (3 mesi!), cancella come una spugna i disagi, le sofferenze e le paure di coloro (soprattutto donne) che hanno denunciato, non solo al nostro giornale ma in passato, a più riprese, a componenti del comitato, di aver vissuto sulla propria pelle tutta una serie di violazioni dell’integrità personale fra cui anche mobbing e pressioni avvalorate da necessità economiche. Testimonianze credibili, lineari, tristemente simili, ricollegabili chiaramente alla stessa persona che in Unitas rivestiva (e riveste tuttora) una posizione ai vertici. Ciò che ha portato qualcuno a dire: da una parte la legge, dall’altra la giustizia, mancata.
Come sia troppo breve il tempo massimo, di poco più di novanta giorni, per denunciare chi, non solo le mani, ma tanto altro, fatichi a tenerli al suo posto, riporta d’attualità un tema che, oggi più che mai, dovrebbe essere affrontato sui banchi di un Legislativo. Troppe volte deputati di ogni foggia partitica si riempiono la bocca nel difendere le vittime di viscidi atteggiamenti, potenzialmente perseguibili, per poi però trincerarsi dietro al silenzio, a un’interrogazione non partorita, a una ‘pulce’ neppure accennata, così da proteggere la propria lobby, il proprio ‘amico’. Anche, purtroppo, in Ticino.
Per riportare a galla, da laggiù, dove in molti hanno cercato magari di insabbiare, nascondere, sotterrare, come il più scomodo degli scheletri nell’armadio, non solo ci vogliono pieni polmoni e tanto fiato, ma grande forza e coraggio, soprattutto, per uscire da un vortice che, all’inizio, ti imprigiona, facendoti perdere direzione e lucidità, portandoti spesso a pensare, sbagliando, di esserne la colpa piuttosto che l’oggetto. Per metabolizzare una violenza, una qualsiasi forma di aggressione fisica o verbale, gli esperti ci insegnano che ci vuole pazienza e un terreno fertile di ascolto, soprattutto da coloro preposti per attivarlo e in particolare per accoglierlo. E altrettanto tempo è necessario per convincere la vittima (o convincersi) a parlare, a buttare fuori tutti i contraddittori contorni di un luogo che anziché proteggere permette quelle citate ‘delicate situazioni’, senza intervenire, se non quando è troppo tardi, senza prendere decisioni nette, perché mascherate da interventi dai toni che non si vogliono ‘eccessivamente punitivi’ per il predatore, per chi abusa, vigliaccamente, del suo potere. E il tutto, in generale, per ‘non nuocere’, ancora una volta, alla propria immagine, al proprio gruppo, al proprio entourage.
Che ancora una volta, a ‘segnalare’ non siano stati coloro che, raccolte le confidenze, su un lungo arco di tempo (si parla di decenni), avevano il dovere di farlo; che ancora una volta i tempi della Legge ‘scagionino’ sensi di colpa e confermate voci di corridoio (quel ‘tutti sapevano del vizietto’); che ancora una volta la vittima si senta dire ‘dovevi dirlo prima’, ebbene tutto questo, nel nome della giustizia, resta, francamente, intollerabile.