La polemica attorno alla lezione cancellata illustra i rischi del boicottaggio culturale, che può sempre passare dalla morale al moralismo
Il "caso Dostoevskij" dovrebbe ormai essersi esaurito, probabilmente sostituito da qualche altra polemica che temporaneamente monopolizza l’indignazione sui media vecchi e nuovi. Eppure forse la vicenda dell’università italiana che decide di posticipare un seminario dedicato, appunto, a Dostoevskij merita qualche altra riflessione.
Partiamo dalla retromarcia delle istituzioni accademiche che, invece di provare a difendere quella che è lecito immaginare essere stata una decisione discussa e ragionata, di fronte all’indignazione sui social media hanno subito annunciato che il seminario si sarebbe tenuto. "Ma davvero non se l’aspettavano, quelli dell’università, che sarebbe scoppiato un casino simile?", si è chiesto qualcuno, lasciando intendere un’ingenuità sui meccanismi della rete e dei media che è effettivamente ingiustificabile. Tuttavia va ricordato che questa decisione si inserisce in un lungo elenco di azioni di boicottaggio verso la Russia che riguardano anche il mondo della cultura oltre che dello sport: concerti annullati, artisti rimossi dai loro incarichi, riviste scientifiche che tengono fermi gli articoli presentati da ricercatori attivi in istituzioni russe. Boicottaggi che hanno sollevato alcune critiche e portato a qualche discussione sul senso e l’opportunità di simili azioni, ma senza raggiungere il livello di indignazione del "caso Dostoevskij". Perché?
Rispondere è meno semplice di quel che si potrebbe pensare, ma certamente uno dei motivi è che la Russia contemporanea di Putin ha poco a che fare con il seminario rimandato: Dostoevskij è morto nel 1881 e non ha molto senso chiedersi che cosa avrebbe pensato dell’invasione dell’Ucraina; non abbiamo istituzioni russe coinvolte e il docente doveva essere uno scrittore italiano senza simpatie putiniane. Una situazione molto diversa da un festival sostenuto dall’ambasciata russa o dal concerto di un artista legato al regime di Putin. L’idea poi di "censurare" un classico evoca immediatamente la cancel culture, tema che scalda subito gli animi, e non dimentichiamo la popolarità del docente che ha – legittimamente – reso pubblico l’annullamento su Instagram: anche questo fa la differenza rispetto al semisconosciuto ricercatore che si è visto rifiutare un articolo. La "shit storm" socialmediatica era insomma prevedibile, ma non così scontata e la decisione di annullare il seminario su Dostoevskij avrebbe potuto benissimo passare inosservata o persino ricevere qualche plauso.
E questo ci porta alla riflessione forse più importante: qual è il senso di questi boicottaggi? Le sanzioni economiche internazionali hanno lo scopo di punire uno Stato e fare pressione affinché cambi condotta, fini che dovrebbero giustificare la sofferenza inflitta anche alla popolazione civile non direttamente responsabile. Ma i boicottaggi artistici, scientifici e sportivi condotti da enti, associazioni e privati cittadini? Difficile pensare che possano mettere pressione a un governo e come punizioni sono ridicolmente lievi in confronto alla gravità di un’invasione militare. Il boicottaggio può essere inteso come una questione di rispetto, uno di quegli atti che, anche se inutili, è giusto fare. Con il rischio di passare dalla morale al moralismo, dall’atto compiuto come forma di rispetto alla mossa un po’ opportunistica per mostrarsi moralmente superiori. Il sospetto è che il "caso Dostoevskij" sia nato un po’ così, e forse non solo quello.