In fondo ciò che si prova di fronte alla sentenza della Corte australiana è una sensazione di giustizia, di giustizia e di sorpresa a dire il vero
Che tu sia il tennista numero uno al mondo o un perfetto sconosciuto, poco cambia. In Australia le regole vanno rispettate. In caso contrario, ne paghi le conseguenze. Sembra essere questo, in estrema sintesi, il ragionamento della Corte federale che ieri, all’unanimità, ha rimandato a casa Novak Djokovic, mettendo un punto finale alla grottesca vicenda che si è trascinata per una decina di giorni; ovvero da quando il campione serbo è atterrato a Melbourne, da non vaccinato, con l’intenzione di vincere il suo ventunesimo Grand Slam.
Ma non sembrano essere state le ambizioni sportive ad aver spinto Djokovic in questi giorni, o almeno non soltanto. È da tempo che Nole ci ha fatto capire di stare guardando oltre. In effetti sono sempre più insistenti – e fondate – le voci che parlano di una carriera politica del tennista nel suo Paese, una volta che avrà appeso la racchetta al chiodo. Ed è sotto questa luce che andrebbe analizzata questa sua ostinazione a restare in Australia, malgrado tutto. Un’irriducibilità tanto apprezzata quando gioca a tennis, ma che fuori dal campo è diventata un’arma a doppio taglio: pur di difendere la sua posizione Djokovic è incorso in tutta una serie di apparenti errori non forzati che l’hanno messo in ridicolo. Per delirio d’onnipotenza o ingenuità, resta il fatto che ‘Djoker’ ha aggiunto alla sua lunga lista di atteggiamenti antiscientifici e nazionalisti un nuovo e bruttissimo episodio.
Era tutt’altro che tennis, insomma, la partita tra il campione serbo e il governo australiano. Una partita dalla quale, tra l’altro, escono tutti perdenti. Pure il primo ministro australiano Scott Morrison, nonostante certe sue dichiarazioni altisonanti degli ultimi giorni. D’altronde è innegabile che una quota di responsabilità in tutto questo pasticcio riguardi il suo governo. Risulta infatti difficile pensare che Djokovic si sia imbarcato per l’Australia con tanto di post “See you there, everybody”, senza che qualcuno gli abbia prima detto: “Vieni pure, Nole”. Che il governo federale fosse all’oscuro di tutto? Difficile crederlo. Con le elezioni dietro l’angolo, e dopo una severissima politica sanitaria negli ultimi venti mesi, per Morrison è diventata una questione di credibilità.
In fondo ciò che si prova di fronte alla sentenza della Corte australiana è una sensazione di giustizia, di giustizia e di sorpresa a dire il vero. Perché siamo troppo abituati a vedere i potenti spuntarla sempre. E fino all’ultimo sembrava che anche questa volta potesse andare così. Ma forse la posta in gioco era troppo alta. Per il governo australiano e non solo: il mondo intero, che da due anni fa di tutto per contenere la diffusione del coronavirus, ha seguito con stupore gli sviluppi che hanno portato all’espulsione del tennista dall’Australia.
Chissà se uno come Emir Kusturica avrà seguito l’intera saga? Se lo ha fatto è probabile che stia pensando a un sequel del suo celebre ‘Underground’: una potente colonna sonora prima di tutto, più i Djokovic, padre e figlio, assoluti protagonisti di una nuova esilarante e allo stesso tempo tragica farsa (“Fuori c’è la guerra. Mio figlio come Gesù Cristo. Prepariamoci a combattere il nemico”) che alla fine viene smascherata da tutti noi, appena usciti dal sottosuolo dello sport.
Scena dopo i titoli di coda: Nole è seduto sull’aereo che lo riporta a Belgrado indossando correttamente la sua mascherina, mentre guarda sullo schermo del suo tablet i campi di allenamento del Roland Garros. The end.