Il ‘via-libera’ del giudice Kelly fa esultare il clan Djokovic, ma l’ultima parola spetta al governo
«Voglio restare e partecipare agli Australian Open. Sono concentrato, sono venuto qui per disputare uno degli appuntamenti più importanti davanti a tifosi meravigliosi. Grazie di essere stati al mio fianco e di avermi incoraggiato a restare forte».
Parole di un Novak Djokovic sollevato dal verdetto del giudice Anthony Kelly, il quale ieri aveva convalidato il suo visto d’ingresso facendo cantar vittoria ad amici, familiari («Il suo trionfo più grande»), simpatizzanti, comunità No-Vax e politici vari, tutti accomunati dal motto “giustizia è fatta”. Un primo set portato a casa, da parte del numero uno al mondo, in una partita che però non si è chiusa. Lo sa bene, Nole, quanto possa essere lungo un incontro, quanti capovolgimenti di fronte ci possano essere, prima del match ball.
Troppe, le implicazioni, troppe le zone d’ombra, per una vicenda che ha assunto i contorni del caso politico e diplomatico e che nelle scorse ore potrebbe aver fatto registrare l’ennesimo colpo di scena, stavolta a firma governo australiano. Già, perché le autorità di Canberra si erano messe di traverso sin da subito, a prescindere da quale sarebbe poi stato il verdetto di Kelly. Da giorni ripetono che non avrebbero ritenuto valido il visto d’ingresso. Si erano subito dette pronte a intervenire anche nell’eventualità che il Tribunale preposto avesse ammesso il tennista serbo, rimasto chiuso per giorni in una struttura per richiedenti l’asilo, fermo sulle proprie posizioni di atleta al quale andrebbe concesso l’ingresso in Australia per effetto della tanto chiacchierata esenzione medica della quale era certo di poter beneficiare.
Già domenica il governo australiano aveva manifestato la propria contrarietà al paventato ingresso di Djokovic nel Paese. Per Canberra, l’infezione da Covid “non è una motivazione sufficiente per ottenere l’esenzione medica, e Novak Djokovic non ha fornito ulteriori prove evidenti di controindicazione al vaccino”. Di conseguenza, il numero uno del tennis mondiale non avrebbe potuto entrare nel Paese, né prendere parte agli Australian Open: questo indipendentemente dal giudizio del Tribunale chiamato a esprimersi sull’annullamento del visto, poiché è competenza del governo la scelta di non far entrare Djokovic. Questa, in sintesi, la posizione dell’esecutivo di Canberra, contenuta nella risposta che era stata portata nell’udienza presieduta dal giudice Kelly.
Come è possibile leggere al punto 64, non esistono garanzie d’ingresso nel Paese da parte di un cittadino non australiano, come ci sono ragioni per cui il visto possa essere annullato o rifiutato. E anche se a Djokovic era stato confermato che le sue domande soddisfacevano i requisiti per poter viaggiare in Australia senza quarantena, il ministro dell’Interno ha il potere di verificare le prove e di cancellare il visto. In conclusione, si legge nel documento delle autorità australiane, la domanda di Novak Djokovic avrebbe dovuto essere rifiutata. E non è tutto: in un altro passo importante del documento il governo australiano ha ribadito la propria facoltà di annullare il visto anche nel caso in cui il Tribunale avesse dato ragione a Djokovic e avesse revocato la prima cancellazione del visto. «L’Australia, in quanto Paese sovrano, mantiene la massima discrezionalità su chi lascia entrare nei propri confini».
Djokovic al suo atterraggio a Melbourne aveva consegnato agli ufficiali della polizia di frontiera una dispensa medica su carta intestata di Tennis Australia firmata dal responsabile medico della federazione. Un documento che era stato rifiutato. Il governo aveva peraltro detto che Tennis Australia era già stata istruita tempo fa sulle procedure da seguire. In una lettera ai media, il ministro della Salute Greg Hunt lo scorso novembre aveva scritto al direttore generale della federazione australiana, Craig Tiley, avvertendolo che ai giocatori non sarebbe stata concessa alcuna esenzione alla vaccinazione sulla base di una recente positività al virus. Tennis Australia non ha fornito dettagli in merito, ma ha difeso il processo di concessione delle esenzioni. «Per i tennisti si tratta di una procedura molto più complessa rispetto a quella alla quale viene sottoposto chiunque voglia entrare in Australia», aveva affermato Tiley.
Sabato, dopo tante supposizioni e con la vicenda ormai esplosa in modo fragoroso, ecco le prime indiscrezioni circa il motivo che avrebbe dovuto permettere a Djokovic di ottenere l’ormai famigerata esenzione medica: una positività al Covid-19 registrata lo scorso 16 dicembre. Peccato che per la procedura dell’esenzione i tennisti si sarebbero dovuti registrare entro il 10 dicembre, ovvero una settimana prima che – secondo quanto affermato dai suoi legali – Djokovic scoprisse di aver contratto il virus. Le incongruenze sono anche di più. Primo: la segnalazione fatta da Tennis Australia agli atleti era errata. Come detto, il governo guidato dal primo ministro Morrison aveva infatti già sottolineato come l’aver superato la malattia non sarebbe stato sufficiente per entrare nel Paese. Un equivoco che avrebbe ingannato il serbo, bloccato dall’Australian Border Force. Secondo: se Nole ha contratto il virus il 16 dicembre, come mai lo stesso giorno ha partecipato a un evento della Posta del suo Paese (la quale ha emesso un francobollo in suo onore, notizia pubblicata l’indomani via social) e il giorno successivo ha presenziato a una cerimonia di premiazione organizzata al suo Novak Tennis Center alla presenza di alcuni bambini, evento di cui vi è ampia testimonianza anche in questo caso via social? Una domanda scottante alla quale in una conferenza stampa organizzata per celebrare la vittoria di un «uomo libero» il fratello Djordje ha reagito dichiarandola conclusa.
La diatriba sportivo-politica sfociata, che ha avuto nel ricorso dei legali di Djokovic e nel verdetto a lui favorevole di Kelly l’ultimo capitolo (ma solo in ordine di tempo), è diventata anche uno scottante caso diplomatico. Il presidente serbo Aleksandar Vucic aveva scritto che «tutta la Serbia è con lui», chiedendo che «le autorità prendano tutte le misure necessarie affinché cessi prima possibile il maltrattamento del miglior giocatore di tennis del mondo». Dopo Vucic, anche il ministro dello Sport Vanja Udovicic era intervenuto a difesa di Novak Djokovic: «È assurdo e vergognoso, sono scioccato per il trattamento riservato a Novak e non posso credere che qualcuno possa trattare in tal modo il miglior tennista del mondo. La Serbia è con te», aveva detto Udovicic citato dai media serbi. Il padre di Djokovic, Srdjan, da parte sua ha usato termini forti quali “deportazione” e “prigioniero politico”.
Si era levata anche la voce della ministra degli Interni di Canberra, Karen Andrews, la quale ha affermato che il numero uno della classifica Atp non è prigioniero, ma è libero di andarsene. Andrews ha nel contempo respinto le accuse rivolte dalla famiglia del tennista serbo al governo australiano. «Djokovic non è prigioniero in Australia – ha detto la ministra Andrews all’emittente nazionale Abc –, è libero di lasciare il paese in qualsiasi momento voglia, cosa che le autorità di frontiera faciliterebbero».
Novak Djokovic era volato in Australia forte di un’esenzione medica che aveva fatto storcere il naso a molti ma che sembrava appunto destinata ad aprirgli le porte di un Paese tra i più restrittivi dall’inizio della pandemia di Covid. Poi il colpo di scena: atterrato nell’aeroporto di Tullamarine alle 23.30 di mercoledì (le 13.30 in Svizzera), il campione serbo era stato fermato e interrogato a lungo dalle autorità di confine, che alla fine avevano deciso di annullare il suo visto. “Djokovic non è riuscito a fornire prove adeguate per soddisfare i requisiti di ingresso in Australia – recitava la nota dell’Australian Border Force – e il suo visto è stato successivamente annullato”. Scott Morrison, primo ministro australiano, aveva aggiunto: “Le regole sono regole, e valgono per tutti”. Djokovic a casa quindi? No, perlomeno non subito, perché i suoi avvocati hanno presentato ricorso contro la decisione delle autorità locali, ottenendo un’ingiunzione provvisoria trasformata in un “lasciapassare” dal citato Kelly. La polizia di frontiera lo aveva trattenuto fino alla mattina in una stanza dell’aeroporto Tullamarine, stessa sorte per i componenti del suo staff, tra i quali Goran Ivanisevic, che aveva pubblicato sui social una foto del “bivacco” forzato.
In un secondo tempo, Nole – sostenuto da alcuni suoi fan scesi in strada per chiederne la “liberazione” – era stato messo al confino al Park Hotel, situato a Carlton (un sobborgo di Melbourne), struttura che dal 2020 è utilizzata dal governo per alloggiarvi i richiedenti asilo (al momento circa una trentina).
I politici del Paese, di fronte all’indignazione e alle polemiche crescenti per l’esenzione che gli era stata concessa, avevano nel frattempo preso le distanze. Ma già mentre il serbo era in volo, del tutto ignaro, in Australia la polemica divampava come un incendio. Sulla questione era subito intervenuto il premier, Scott Morrison, che aveva minacciato di far rientrare il serbo «col primo aereo» se la sua esenzione dall’obbligo di vaccino non fosse stata giustificata. «Aspettiamo spiegazioni e prove a sostegno» di questa deroga, disse poi, aggiungendo che «non ci saranno regole speciali».
Il direttore dell’Australian Open, Craig Tiley, aveva esortato il tennista a rivelare il motivo dell’“esenzione medica” ottenuta. La sua domanda era stata vagliata dalle autorità federali e da quelle dello Stato di Victoria, aveva spiegato Tiley, come quelle presentate da altri 26 giocatori o membri degli staff sui 3’000 circa previsti in Australia per i vari tornei. Pochi l’hanno ottenuta.