Le varianti del virus e quelle del cretino
A cinque giorni dalla conferma della positività, si suppone tu possa serenamente rinunciare alla rituale chiamata del “contact tracing”. Senza stupore né scandalo. Superati i 1000 casi al giorno, le maglie della rete del contagio si fanno troppo fitte e ogni tentativo di tracciamento si risolverà in giramento di testa, e non solo di testa. Del resto, il Consiglio federale tornerà a riunirsi il 12 gennaio: perché i nostri telefonisti dovrebbero lavorare, inutilmente, ogni giorno oltre le 17?
D’altronde, già in estate, di fronte alla misera percentuale di vaccinati in Svizzera, ti prefiguravi un Natale tendenzialmente divisivo: responsabili contro indecisi, altruisti contro egocentrici, scienziati e stregoni, colpevoli e innocenti… A conti fatti, è andata peggio. Preso atto di quest’altro fallimento (politico), mentre ti godi negli anfratti bronchiali i tafferugli tra gli Omicron e gli anticorpi di recente produzione, accedi all’ottimismo di chi ha ritrovato i piaceri della statistica. Sfuggi la domanda se davvero, due anni dopo, possiamo riscoprirci migliori, ma ti consoli pensando a quella maggioranza silenziosa che ha saputo agire, tutto sommato, con dignità: dimostrando un minimo di responsabilità, di coraggio, di altruismo, di senso della comunità. Diciamo di intelligenza. Almeno quella necessaria a constatare la propria ignoranza e a riconoscere, sia pure nell’incertezza, una voce autorevole. Esercizio virtuoso in un’epoca in cui la massa, come in passato, resta bovina; eppure, meno incline all’arte dell’ascolto, sempre più spesso si convince, a torto, di aver capito qualcosa di rilevante. E lo urla al mondo.
Guy Parmelin ha parlato di “debolezze del federalismo”. Da parte di un Udc, è già una notizia. Certo, lui si è limitato a evocare gli ingranaggi farraginosi di una macchina statale che si muove su più livelli. Ma a te, dal 1985, giunge la voce di Fruttero e Lucentini, la loro “prevalenza del cretino”, umano resistente e pervicace per ragioni numeriche, nel quale si è ormai inculcata la convinzione che la sua opinione, in qualsiasi frangente, conti qualcosa. Una “prevalenza” tanto più tangibile nel 21esimo secolo dei social, delle cure a priori alternative, del misticismo fai-da-te. Ancor più in una democrazia semi-diretta che a tratti appare un po’ complessata, se non pilatesca: pronta a legittimare ogni parere, fosse pure chiaramente stolto; impermeabile ai ritmi decisionali imposti dalle mutazioni di un virus; restia a imporre, se non a decidere alcunché, a costo di intasare “contact tracing” e ospedali, di “fermare la società” (Merlani) e mandare di nuovo in crisi la macchina produttiva del Paese.
Tornado alla statistica, ti dici che la nostra società, malgrado gli innumerevoli tragici inciampi, è andata incontro a un’evoluzione grazie alle minoranze, di potere e/o di genio. Pensiero di conforto, se non fosse per l’evidenza che, di questi tempi, altre minoranze, più nutrite e meno illuminate, possono condizionare il corso degli eventi. Nella latitanza della democrazia, un frullato di inculture in cui proliferano varianti di virus e di cretino. Alla maggioranza responsabile, sempre più frustrata, al più resta l’orgoglio della cavia; sottopostasi docilmente o impavidamente alla sperimentazione non di “Big Pharma”, ma delle varie sfumature di grigio degli “indecisi” ancora forniti di razionalità; timorosi, opportunisti o ipocriti che siano.