Che tipo di certificato applicare sulle piste di hockey? La Lega ha dato mandato ai Ceo dei vari club di chinarsi sulla questione
A volte ritornano. Negli stadi di hockey è di nuovo (forse) tempo di mascherina. E non è ovviamente un ritorno dei più graditi, sebbene in diversi, malgrado la non obbligatorietà di indossarla, non hanno in effetti mai smesso di portarsela appresso allo stadio. Chi per abitudine, chi per precauzione, pronto a indossarla alla bisogna. Ma questa, però, era la ‘nuova’... vecchia normalità. Quello che è andato in scena sabato allo Stadio Multifunzionale (o Gottardo Arena che dir si voglia, in attesa che la ‘casa’ dell’Ambrì Piotta trovi il suo nome ufficiale) in occasione della sfida tra i biancoblù e lo Zurigo è infatti stato l’ultimo capitolo su suolo (pardon, ghiaccio) ticinese di una parentesi aperta a inizio stagione e durata appunto tre mesi scarsi. Adesso è già tempo di… nuova normalità 2.0. Anzi di ‘nuova normalità 2 o 3G’.
Beninteso, quanto deciso venerdì dal Consiglio federale, segnatamente la reintroduzione della mascherina, non è comunque un fulmine a ciel sereno, tant’è vero che alcuni cantoni avevano anticipato i tempi della Berna federale reintroducendone l’obbligo per le strutture chiuse all’interno dei loro comprensori. A cominciare proprio dal cantone della capitale: un primo passo verso una nuova normalità, che ora dovrà però essere plasmata e dunque riadattata secondo la nuova ordinanza, e soprattutto estesa anche a quei cantoni che avevano fatto melina. Il tempo dei fraseggi è insomma finito per tutti, perché alla luce di quanto messo nero su bianco da Berna, sul tavolo dei club, e di riflesso della Lega, le questioni aperte, e le relative implicazioni, sono diverse e di non poco conto. Questioni che si rifanno tutte a un quesito fondamentale: con quante ‘G’ andare avanti? La domanda se l’è posta la Lega di hockey, che ha demandato ai club di chinarsi sulla questione. Oggi se ne saprà di più: i Ceo, convocati per una riunione straordinaria, dovranno infatti decidere se optare per una soluzione univoca per tutte le piste oppure se lasciare ai singoli club di optare per l’una o per l’altra soluzione.
E, appunto, non è una questione di poco conto, visto che in ballo, oltre alla salute pubblica, ci sono anche parecchi soldi. Perché un certificato 2G, il più restrittivo dal momento che negherebbe l’accesso allo stadio alle persone in possesso unicamente del test negativo, consentirebbe però all’interno della struttura di lasciare tutto come prima, ossia senza l’obbligo della mascherina e con tutte le buvette aperte. Il 3G, invece, permetterebbe sì, come prima, l’accesso allo stadio a tutte le persone, ma imporrebbe l’obbligo di consumare cibi e bevande al proprio posto (tradotto: buvette off-limits per il pubblico degli spalti).
La scelta che si trovano davanti i Ceo è insomma tutta sorretta da un gioco di equilibri, dove su un piatto della bilancia c’è la stima della quota di spettatori che rischierebbe di saltare optando per il 2G, e sull’altro quella degli incassi mancanti chiudendo alcuni o addirittura tutti i punti di ristoro. Ma non è finita qui, perché l’eventuale adozione del pass 2G imporrebbe una nuova procedura in materia di controlli, non ancora supportata dall’attuale ‘app’ che scansiona i certificati.