La lista dei patrimoni immateriali era nata per salvare culture morenti, ma da qualche tempo entrano pizze, tango, baguette e chiacchiere all’aperto
La dinamite, Israele, i social network, la fusione nucleare, il Var. Nella lunga lista delle cose create con le migliori intenzioni e finite da tutt’altra parte possiamo senz’altro aggiungere anche i patrimoni immateriali dell’Unesco.
Nati con il nobile scopo di proteggere popoli sull’orlo dell’estinzione, preservare usi e costumi in pericolo, difendere il piccolo, il diverso, il marginale dall’avanzare dell’omologazione, sembrano ormai diventati un’insensata lista di appunti sparsi, una vanteria per ultralocalisti complessati a cui non basta godersi quel che si ha, magari dopo averlo esportato in tutto il mondo con orgoglio. No, ci vuole il timbro della grande organizzazione internazionale. Solo così, forse, riescono a trovare pace i sostenitori di loro stessi e delle loro abitudini.
Ricordano quelle famiglie che qualche decennio fa, con la scusa di un aperitivo, ti invitavano, trovavano un modo di immobilizzarti nei loro salotti e poi ti costringevano a vedere le famigerate diapositive delle loro vacanze.
E così, di tanto in tanto, subiamo annunci in stile fanfara che sanno di controsenso: la Francia l’anno scorso ha candidato all’Unesco la baguette, probabilmente la forma di pane più conosciuta al mondo. Che bisogno c’è? Se spariscono dagli scaffali delle panetterie di solito è perché sono finite. Casomai non ce ne sono abbastanza.
La baguette, orgoglio francese (Keystone)
Dal 2016 è entrata tra i patrimoni immateriali l’arte del “pizzaiuolo”, con la u, che fa più Unesco. Ora se c’è una cosa che si trova anche in Antartide e si estinguerà perfino dopo il genere umano sarà la pizza. Quando non ci saremo più, qualche altra forma di vita, nel frattempo, avrà imparato a farla. Celebrarne l’idea e la maestria di chi sa cuocerla al meglio è giusto, metterla tra un canto degli aborigeni australiani il cui ultimo custode, ultracentenario, è afono e uno strumento di caccia creato da una pianta dell’Amazzonia che cresce solo accanto a un fiume minacciato da una mandria di bulldozer va oltre il ridicolo.
L’ultima idea, chiamiamola così, finita sulle scrivanie dell’Unesco, arriva dalla Spagna, dove vogliono far diventare patrimonio dell’umanità le “charlas al fresco” di Algar, una paesino dell’Andalusia. Cosa sono queste importantissime “charlas” da preservare? Niente più che le chiacchiere all’aperto che si fanno tra vicini di casa, con le sedie che passano dalla cucina alla strada.
Davvero sono così particolari, e così a rischio? Basta girare una sera d’estate per i cortili di Garbatella, a Roma, per vedere sedie e sentire chiacchiere uscite a prendere aria. O passeggiare per le strade di Tunisi, L’Avana, New York (ecco, magari non a Times Square).
Le “charlas al fresco” di Algar, in Andalusia (Twitter)
La Svizzera, ad esempio, ha la “maestria artigiana in meccanica orologiera”. Ricapitolando: agli affascinanti disegni sulla sabbia di Vanuatu, ai balli millenari di Tonga, al teatro cambogiano e alle antiche musiche azere, la Francia risponde con la baguette, l’Italia con la pizza, la Svizzera con gli orologi: più che un campionario di cose da salvare sembra un campionato di luoghi comuni. Di questo passo, pensi, l’Argentina chiederà di metterci il tango, il Belgio le birre, il Brasile il samba, la Giamaica il reggae. Già fatto.
Forse è la lista dei patrimoni immateriali Unesco la vera cosa da salvare. Da se stessa.
I Mondiali di tango a Buenos Aires (Keystone)