Insisto sull’argomento, sollecitato da qualche amichevole e palesata discordanza di vedute e pure – presumo – da qualche infastidito e definitivo vaffa
Insisto sull’argomento, sollecitato da qualche amichevole e palesata discordanza di vedute e pure – presumo – da qualche infastidito e definitivo vaffa. Libertà: parola usata, abusata, urlata, gridata, travisata, equivocata, storpiata, strumentalizzata. È in prima fila perfino nelle adunate con il braccio teso e lo sguardo truce, straripa e abbonda sui cartelloni. Noi cittadini nati nel Secondo Dopoguerra ci dovremmo rallegrare per tanta iperbolica profusione. In fondo è in quegli anni che si edificò lo Stato democratico liberale: i tristi precedenti convinsero i nostri padri che non vi è libertà senza democrazia e non vi è democrazia senza libertà.
Ma, a dire il vero, ho qualche forte divergenza interpretativa sulla libertà esibita e gridata dai piazzaioli e pure dai più cauti e discreti rinunciatari del vaccino: non è la libertà che mi è stata insegnata. Perché non è libertà quella che traccia poderosi solchi fra noi e gli altri. E non è libertà quella ostentata come esclusivo affare del singolo, come illimitata possibilità di ogni individuo di disporre e scegliere a prescindere dagli altri: in fondo questo modo di intendere la libertà non prevede nessuna reciprocità e può arrivare a percepire l’interesse collettivo come un ostacolo e un impedimento.
Lo storico americano Eric Foner ce lo dice: i suoi compatrioti giustificano ogni comportamento, anche il più turpe, con una formula famosa, ‘It’s a free country!’. Tradotto: è un paese libero e faccio quello che mi pare! Insomma, quella libertà esibita oggi da troppi è una libertà “solitaria”, egoista, che regge un solo pronome, l’‘io’, è di esclusiva pertinenza del singolo ed è rivendicata a costo di danneggiare gli altri: quindi, per restare sull’attualità, “non mi vaccino perché non lo voglio in nome della mia libertà”!
Non mi pare che così la intendesse quel padre del liberalismo di qualche secolo fa, che ci ricordava che la ragione “insegna a tutto il genere umano che nessuno deve danneggiare la vita, la salute, la libertà e i possessi altrui”: per logica deduzione concludeva che la libertà di ognuno non può essere assoluta perché tutti sono portatori di uguali diritti. La Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 riprende il concetto e associa indissolubilmente la libertà allo spirito di solidarietà collettiva, al diritto alla vita e alla sicurezza.
Quindi la vera libertà contiene due pronomi, l’‘io’ e il ‘noi’, e ripudia il ‘voi’ che separa. Cosa significa tutto ciò? Semplicemente che il confine della libertà è dato dal rispetto del bene comune (l’‘io’ nel ‘noi’). Quindi chi rifiuta il vaccino ha il diritto di farlo per motivi suoi, ma non può farlo in nome della libertà perché il suo atteggiamento non ammette il ‘noi’. E infatti non si preoccupa della sicurezza collettiva e dei costi sociali che genera (sono soprattutto i non vaccinati ad assecondare il contagio: debbono giustamente essere curati in nome della Libertà Eguale, ma intanto gli altri aspettano fuori).
Quindi sfoggiamo pure tutto il nostro eloquio, convochiamo i renitenti per convincerli. Se poi recalcitrano e persistono nel diniego, beh!, allora accettino di restare in disparte, sempre per libera scelta, e non parlino sventatamente di discriminazione. In genere, chi sale sul treno paga il biglietto: c’è però la categoria dei free rider che vogliono salire senza pagarlo, pur beneficiando di un bene pubblico. Come i free rider del vaccino: aspettano l’immunità di gregge, ma non partecipano allo sforzo collettivo e il biglietto proprio non vogliono pagarlo. Quindi, d’accordo, incoraggiamoli con le buone parole perché in democrazia si fa così. Ma non dimentichiamo quanto diceva il primo ministro inglese Clement Attlee: discutere con fervore fa bene alla democrazia, ma poi bisogna trovare il modo di far tacere i chiacchieroni inconcludenti (e non è facile) per poi darsi da fare.