La tragedia sfiorata in campo del giocatore danese ha fatto dare il peggio a pagine social e media internazionali, che hanno preferito la morbosità alla cronaca
Solo una cosa può farti rimangiare il proposito di non scrivere nemmeno una riga sul malore in campo di Christian Eriksen, quelli che hanno scritto del malore in campo di Christian Eriksen.
Si può perdonare la regia di Euro 2020, che ha indugiato tanto, troppo, sul volto e sul corpo del giocatore della Danimarca crollato a terra. Ma tutto è accaduto in pochi secondi e la situazione era talmente imprevedibile che bisogna dare atto a chi sceglieva quali immagini mandare in onda che fare tutto come andava fatto era oggettivamente difficile. La freddezza del capitano della Danimarca Simon Kjaer, che ha subito liberato le vie aree del compagno di squadra, e poi dei medici intervenuti sul campo, non è da tutti.
Lo scudo umano formato dai calciatori danesi a protezione di Eriksen è l’esatta fotografia della complessità umana davanti a un evento inatteso, perdipiù una tragedia, in questo caso. C’è chi si abbassa sul calciatore in arresto cardiaco e lo tocca, chi rimane con lo sguardo fisso su di lui, chi non sa da che parte stare girato, e chi non guarda, gli dà le spalle e piange. Sono tutte reazioni non solo possibili, ma anche comprensibili. E non giudicabili, soprattutto da chi stava seduto in poltrona.
Ma a non avere scuse è il morboso circo azionato dalla morte in diretta (perché di quello si stava trattando): un’immagine che più privata non si potrebbe catapultata nel palcoscenico più pubblico che si possa immaginare, un evento sportivo internazionale in mondovisione.
Nemmeno si sapeva ancora se Eriksen fosse vivo o morto, che sui siti di testate storiche - tra cui La Gazzetta dello Sport e lo spagnolo Marca - era già partito l’Europeo del voyeurismo: “Clicca qui per vedere il giocatore crollare a terra”, “La moglie in lacrime a bordo campo. Chi é? Guarda la biografia”, e via così in un inferno giornalistico di cui avremmo volentieri fatto a meno.
Christian Eriksen, 109 partite con la sua nazionale (Keystone)
C’è una sola immagine, in quei momenti, di cui avevamo bisogno. Forse non avevamo il diritto di vederla, ma l’abbiamo vista. Eriksen in barella, cosciente e con la maschera d’ossigeno, che viene accompagnato fuori dal campo. Ha tranquillizzato tutti. Ed era forse giusto, in quel momento, farne un fermo immagine e spararlo sui siti di mezzo mondo. Chi aveva assistito, in diretta, dall’inizio, aveva una necessità quasi fisica di chiudere quegli attimi di angoscia con un’immagine rassicurante. Ma una volta esaurita quella strettoia di tempo sospeso iniziata con il crollo a terra di Eriksen, stop. Chi l’ha saputo dopo aveva il diritto di farselo raccontare, ma non aveva bisogno di nulla di tutto questo. Bastavano e avanzavano la fredda cronaca e il semicerchio formato dalla nazionale danese a protezione del compagno.
Invece le discutibili e stucchevoli pagine social emozionali - quelle tutte emoticon, storytelling e resilienza - ci hanno sguazzato, inondandoci con una retorica da quattro soldi che ci ha trovato con la guardia abbassata. E giù condivisioni.
Il peggio però, lo hanno fatto alcuni media di lungo corso. E qui torna prepotentemente protagonista La Gazzetta dello Sport, che il giorno dopo, quando ormai c’era stato tutto il tempo di usare il cervello, ha sparato in prima pagina la foto della barella e a pagina due, sgranata - quindi facendo anche lo sforzo di cercare il più possibile il primo piano a dispetto della qualità dell’immagine - gli occhi sbarrati di Eriksen in fin di vita. Come se fossimo davanti a un irrinunciabile documento stile Vietnam, un orribile, destabilizzante, potente momento di morte e guerra sbattuto in faccia ai lettori per sensibilizzarli. Niente di tutto questo: solo morbosità e voyeurismo scambiati per informazione dai professionisti dell’informazione.
Ci sarà un motivo se la storia ce la facciamo spiegare da Alessandro Barbero e non da Victoria Beckham. Sennò vale tutto. È così difficile pretendere alti livelli di etica e professionalità da chi ci racconta lo sport?
Arriviamo al giorno dopo ancora: in tv e in radio, giornalisti delle testate coinvolte nel laido racconto dallo spioncino si complimentano tra loro per l’ottimo lavoro svolto, non rendendosi nemmeno più conto della melma in cui lavorano felici. Anzi, vogliono convincerci a suon di urla, foto oscene e “clicca qui” che sarebbe proprio una bell’idea tuffarsi tra loro.
Inevitabile pensarli protagonisti di “Questa è l’acqua”, una delle storielle più note di David Foster Wallace: “Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce più anziano che dice loro: ‘Salve ragazzi, com’è l’acqua?’ I due pesci più giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: ‘Che diavolo è l’acqua?’”
Ecco. Un’acqua, tra l’altro, parecchio sporca.
La dedica di Michael Gregoritsch, giocatore austriaco (Keystone)