Fino a ieri i tromboni nostrani lamentavano le demolizioni fasulle attribuite al ‘politically correct’. Come cambia in fretta il mondo, signora mia
Come cambiano in fretta le cose, certe volte. Fino all’altro giorno, in Ticino le anime belle che se la prendevano con la cancel culture stavano pressoché tutte nel campo reazionario. Da lì si compiacevano delle loro parole posticce, inventandosi notizie fasulle come la chiusura di facoltà classiche, gli scandali su baci da favola, quella ‘dittatura del politically correct’ che vive solo nelle loro teste ed è giornalmente smentita dalla protervia di certi tangheri. Ancora sabato scorso un filosofo locale levava da Muzzano alti lai perché “gli spazi per la libera espressione stanno restringendosi”, tirando insieme a casaccio – nel suo immaginario combattimento contro chissà quale censura – Sant’Agostino Montaigne Spinoza Bayle Locke e Mill (m’è uscito un etto e mezzo, che faccio, lascio?).
Quella stessa sera si scopriva che a restringere “gli spazi per la libera espressione”, addirittura ad abbattere simboli e monumenti – come gli afroamericani contro i quali ultimamente s’è puntato più d’un niveo ditino – è un grande Municipio dominato dalla destra. Le ruspe, la cancellazione, il fare strame di ogni regola ora arriva da lì, col paradosso che oggi potrebbero essere i molinari a lamentarsi del fatto che “non si può più dire niente, signora mia”. La “psicopolizia tratteggiata da Orwell”, scomodata senza uno straccio di prova dalle elucubrazioni di quello stesso filosofo, è stata rimpiazzata da una più pedestre polizia tout court.
Ora molti tracciano improbabili equivalenze tra la violenza istituzionale e quella dei casseur nascosti tra gli autogestiti, come se davvero si potesse pensare che un ragazzino debba comportarsi come un capodicastero. C’è addirittura chi ritiene normale la proditoria demolizione dell’unico centro sociale ticinese, mentre sarebbe più grave qualche pertiniano “libero fischio in libera piazza” davanti alla casa del sindaco. Questo è forse il più acrobatico degli avvitamenti politici visti in questi giorni, venendo dalla stessa Lega che fino a qualche anno fa occupava l’autostrada e sparava col fucile dai terrazzi per festeggiare le sue vittorie. Oggi i pargoli di quella stagione lasciano il Gran Consiglio piagnucolando per gli attacchi a Marco Borradori, loro che non sarebbero neppure seduti lì se non fosse per una retorica da spaccavetrine, veicolata brandendo ogni domenica un giornalaccio a mo’ di spranga (i famosi ‘due minuti d’odio’ contro il nemico di ‘1984’: Orwell bisognerebbe anche leggerlo, prima di scomodarlo). I leghisti hanno passato trent’anni a intimidire, minacciare, sputtanare, a fomentare ogni forma d'astio, e adesso vanno via dall’aula ‘a culodritto’ come bimbetti col giocattolo rotto: a vederla uscire, quell’improbabile comitiva di miracolati, veniva quasi voglia di avvicinarsi con un fazzoletto e asciugare il moccio dai loro nasini.
Chissà però che questa crisi non possa servire a qualcosa. In fondo è stato istruttivo vedere una certa politica inciampare in scuse assurde (“non sapevamo della demolizione”, signora maestra, e il cane ci ha mangiato i compiti). Chissà se davvero si son fatti menare per il naso oppure hanno cercato deliberatamente l’atto di forza, come pare emergere negli ultimi giorni. In entrambi i casi, è l’occasione per chiederci chi diavolo sia riuscito ad arrampicarsi fino a certi posti di responsabilità: le ricostruzioni tenute insieme col fil di ferro, i “passavo di lì per caso” non offrono un grande esempio di classe dirigente e sollevano quantomeno un dubbio su come la si seleziona, e sul perché la si vota. Il discorso vale per Lugano come per il governo cantonale, naturalmente, visto che ancora aspettiamo qualche parola dal Dipartimento delle istituzioni, che almeno ci spieghi come lavora la ‘sua’ polizia.
Ma le cose che cambiano in fretta possono ancora rovesciarsi. Oggi si terrà una nuova manifestazione in difesa dell’autogestione, che per le dimensioni luganesi c’è da aspettarsi immensa. È scontata la presenza di una minoranza malintenzionata, come sempre in questi casi e a maggior ragione dopo i fatti della settimana scorsa. Se dovesse succedere qualcosa di grave, la legittima indignazione degli autogestiti sarebbe sepolta dal clangore dell’inciviltà, con un assist gratuito a chi non attende altro pur di darsi un tono e scuotere la testa col solito stizzito, ottuso cipiglio. Sarebbe una clamorosa occasione persa per ripartire verso una politica più alta, dentro e fuori la questione dell’autogestione. E per combattere la vera ‘cancel culture’, quella che con le ruspe investe la dignità di tutti.