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Muore l’accordo quadro con l’Ue, e non c’è un vero piano B

Il Consiglio federale affossa l’intesa senza sottoporla al Parlamento. Una scelta che potrebbe essere gravida di conseguenze per la via bilaterale

Keller-Sutter, Parmelin e Cassis (da sin.)
(Keystone)
27 maggio 2021
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Una «domenica nera» per la Svizzera. Così definì quel 6 dicembre 1992 il consigliere federale Jean-Pascal Delamuraz, scornato per il ‘no’ del popolo elvetico allo Spazio economico europeo. Oggi non si può parlare di un “mercoledì nero”, va bene. Ma da qui ad affermare che la morte dell’accordo quadro spianerà la strada a «un nuovo inizio» nelle relazioni con l’Ue (il presidente della Confederazione Guy Parmelin), ce ne passa. Anche perché Parmelin, il ministro degli Esteri Ignazio Cassis e la ministra di Giustizia e polizia Karin Keller-Sutter non hanno saputo dire granché di concreto sull’alternativa a quella che a lungo è stata indicata come la via maestra per consolidare i Bilaterali, concepiti proprio dopo il rifiuto popolare di 29 anni fa. Più che un nuovo inizio, a noi sembra un vecchio slogan.

Poche ore prima dell’annuncio funebre, un Tiger dell’esercito si è schiantato al suolo su una montagna nel Canton Obvaldo. Il pilota ne è uscito illeso: se l’è cavata azionando il seggiolino eiettabile. Il Consiglio federale, dopo sette tormentati e inconcludenti anni di volo negoziale, ha fatto la stessa cosa; e come l’abile e sveglio pilota, adesso spera in un ‘soft-landing’, un atterraggio morbido. Ma è sin d’ora chiaro che – pur con un vago paracadute destinato a limitare i danni – la Svizzera (o meglio: certi settori dell’economia di esportazione) un po’ male si farà. Quanto, resta tutto da vedere.

I Verdi la chiamano la “Waterloo di Cassis”. Ma nella cabina di pilotaggio non c’era solo lui: la sciagurata gestione del cruciale dossier non gli può essere attribuita esclusivamente. A inizio 2018 l’ancora apprendista ministro degli Esteri si è ritrovato la patata bollente tra le mani, con un mandato negoziale definito da tempo e gli ingombranti giudici stranieri accettati piuttosto frettolosamente dal suo predecessore Didier Burkhalter. Poi (giugno 2018) Cassis ci ha messo del suo, questo sì: ha flirtato pubblicamente con una delle ‘linee rosse’ (la protezione dei salari), giocandosi il sostegno dei sindacati, attori chiave sul piano interno. Infine, una volta conclusi i negoziati (novembre 2018), lui e i suoi colleghi di governo hanno fatto calare una cappa di silenzio. Due lunghi anni e mezzo, nei quali il Consiglio federale non è stato in grado di ‘staccarsi’ dal testo, spiegando in modo convincente cosa sarebbe stato in gioco per la Svizzera se l’accordo non fosse stato firmato. Leggerezza politica, mancanza di leadership, vuoto comunicativo: chiamatelo come volete. Sta di fatto che gli avversari dell’accordo – non più solo l’Udc, ormai anche gli stessi sindacati – sono andati a nozze, scavandogli la fossa.

Può anche andar bene così. Non era il caso di cedere sulla protezione dei salari e l’estensione della libera circolazione ai cittadini Ue senza attività lucrativa. Ma forse, a questo punto, valeva la pena andare ai tempi supplementari. Tanto più che la Commissione europea negli ultimi giorni aveva segnalato la disponibilità a entrare nel merito delle richieste elvetiche. Il Consiglio federale avrebbe almeno potuto coinvolgere il Parlamento, al fine di consentire un dibattito il più ampio possibile su un dossier di tale portata. Scegliendo di non farlo, si assume per intero la paternità del fallimento in questo cruciale dossier. Adesso la piccola Svizzera cerca di blandire la grande e irritata Ue con l’invito a un “dialogo politico regolare ad alto livello” e facendo balenare il versamento (che Bruxelles ritiene dovuto) del secondo ‘miliardo di coesione’. Ma ci vorrà ben altro: un vero piano B, in grado di compensare i già tangibili effetti negativi dell’inevitabile erosione della via bilaterale.