La sospensione a tempo indeterminato dell'ex presidente è una sanzione vaga e priva di base normativa. La “corte suprema” del social network chiede chiarezza, probabilmente invano
È una decisione apparentemente salomonica, quella della “corte suprema di Facebook” sulla messa al bando di Donald Trump. L’Oversight Board, organo indipendente voluto da Mark Zuckerberg per giudicare le contestazioni sugli interventi di moderazione sui suoi social network, ha da una parte confermato la sospensione decisa nei momenti dell’assalto al Campidoglio, dall’altra ha giudicato arbitraria la durata indefinita di questa sospensione, imponendo quindi una rivalutazione del caso.
Manifestando solidarietà e vicinanza agli assalitori e continuando a sostenere senza prove che dei brogli avessero ribaltato il legittimo risultato delle elezioni, l’allora presidente Trump non si è limitato a esprimere un’opinione, ma ha creato una situazione di pericolo: la rimozione di quei contenuti e la sospensione temporanea dell’account di Trump sono state scelte opportune e legittime; tuttavia nei regolamenti del social network non si trova da nessuna parte la possibilità di una sospensione a tempo indeterminato e questa appare quindi illegittima oltre che sproporzionata. L’ex presidente degli Stati Uniti potrebbe quindi tornare su Facebook e Instagram, ma tutto sommato non cambierebbe molto: anche in questi mesi Trump ha avuto modo di rendere pubbliche le proprie esternazioni – tra cui l’ultima, successiva alla decisione dell’Oversight Board: “I social media corrotti devono pagare un prezzo politico” – e se hanno trovato meno diffusione, beh probabilmente non è perché Trump non ha più un profilo ufficiale ma perché, non essendo più presidente, le sue affermazioni interessano meno.
Tuttavia basta spostare l’attenzione da Donald Trump a Facebook per trovare il verdetto dell’Oversight Board meno salomonico e cerchiobottista. “Applicando una sanzione vaga e priva di base normativa e poi rimettendo il caso al Board per risolverlo, Facebook cerca di sfuggire alle proprie responsabilità” si legge nelle prime pagine del lungo testo redatto dai consiglieri. Perché, bene ricordarlo, non è stato Trump a ricorrere contro la sospensione, ma l’azienda stessa a sottoporre il caso all’Oversight Board. Che evidentemente non ha gradito molto l’idea di essere chiamato a fornire all’azienda le regole che questa non è stata in grado di darsi da sola. E infatti rispedisce l’incarto al mittente, chiedendo a Facebook di stabilire norme chiare su una lunga serie di punti. Non solo quali sono le possibili sanzioni, ma anche quali informazioni vengono condivise con le forze dell’ordine o come intende evitare influenze politiche ed economiche nella gestione di situazioni simili. Il Board trova inoltre problematica la distinzione, su cui Facebook sembra insistere molto, tra leader politici e altri utenti: le regole devono essere uguali per tutti e se una distinzione va fatta, non è tra politici e non politici, ma tra chi ha grande seguito, e rischia quindi di fare grossi danni, e chi invece ha contatti più limitati.
Certo, si tratta in buona parte di raccomandazioni che Facebook può di fatto ignorare, dicendo semplicemente di averle prese in considerazione. Resta il fatto che un organismo – indipendente per quanto fondato e finanziato dallo stesso social network – ha ribadito che l’agire di Facebook è sostanzialmente confuso e arbitrario, lontano dagli standard che è lecito aspettarsi da chi ha il potere di limitare la libertà di espressione. E quasi non vale la pena sottolineare l’importanza dei social media nella formazione delle opinioni.