Quel pasticciaccio fu il preludio a un’ultima svolta in città: si capì che alzando l’asticella con il mondo dell’arte è anche più facile scottarsi
La trasformazione di Genova da città di ruggine, fabbriche e salsedine a nuovo polo della cultura italiana è stato lento, come tutto quel che si fa in una città nata vecchia, che ha già visto o dice di aver visto tutto. Poi è arrivato Modigliani, anzi non è arrivato Modigliani. È arrivato qualcosa che gli somigliava parecchio, ma non abbastanza. E Genova ne ha vista un’altra.
La città fu cambiata una prima volta, nel 1992, dalle Colombiadi: le celebrazioni per i 500 anni della scoperta dell’America da parte del suo figlio più celebre, Cristoforo Colombo. Arrivarono i soldi, che già era strano, e li spesero bene, che era ancora più strano. Ripulirono i vicoli quel tanto che bastava da farli girare a tutti senza sentirsi troppo in pericolo e riscoprirono una vocazione artistico-turistica che la città non aveva più. Fino a quel momento ci si passava di corsa per poi decidere in quale riviera andare a prendere il sole. Genova era un viaggio in macchina senza nemmeno scendere o al massimo per una forchettata di trofie al pesto. C’era giusto il Salone nautico a far accorrere gente: un posto strano dove i poveri andavano a vedere le barche in vendita per i ricchi e i ricchi andavano a far vedere ai poveri che le compravano, ma non era mica vero. Le compravano i ricchissimi.
L’arte era considerata qualcosa di superfluo, per chi aveva da perdere tempo. A Genova, insomma, si lavorava, si mugugnava, si tifava Genoa o Samp e poco altro. Giusto un po’ di teatro, l’altra specialità della casa. Poi, nel 1997, è arrivata la mostra su Van Dyck a Palazzo Ducale: fu il secondo punto di svolta. Non solo a Genova si facevano mostre, ma la gente ci andava pure. Poi mugugnava lo stesso, ma intanto ci andava.
Nel 2004 Genova divenne capitale europea della Cultura e ormai ci avevano preso gusto un po’ tutti. Fu l’anno della mostra su Rubens: mugugnare si faceva sempre più difficile. E il palato si faceva sempre più fine. Arrivarono un capolavoro dopo l’altro: Warhol, Matisse, Mirò, Van Gogh, Picasso, Monet. Impararono ad attrarre verso il bello il visitatore che virava verso il pop: Frida Kahlo, Steve McCurry, Fabrizio De André e Assassin’s Creed si accompagnavano a Chagall e Tintoretto. La ricetta era perfetta. Le macchine non solo si fermavano, ma non si trovava più parcheggio.
All’inizio del 2017 iniziò, tra i media locali, la celebrazione di Luca Borzani, presidente del rinascimento di Palazzo Ducale, che avrebbe lasciato di lì a poco, dopo otto anni. I numeri erano tutti dalla sua parte. Aveva portato tanto, tutto, forse troppo. Ma questo nessuno ancora lo sapeva. Alcuni titoli di quel periodo erano talmente entusiastici che oggi, a guardarli, fanno sorridere. Borzani, in sintesi, lasciava col botto: Modigliani e Picasso. Due fuoriclasse. Qualcuno parlava di “pesante eredità da raccogliere”, e in larga parte era vero. Genova nel frattempo si era riscoperta città d’arte, e poi anche di scienza (con Festival, popolarissimo, annesso) e di storia (in piazza, tutta piena, come per i concerti).
Ma Modigliani fa rima con beffa, lo sanno bene nella sua Livorno, dove - nel 1984 - tre buontemponi gettarono delle teste false di Modì nel fiume facendo credere al mondo che fossero vere. Quella era una goliardata, mentre i falsi di Modigliani segnalati a Genova a mostra in corso sono un affare maledettamente serio. Quel pasticciaccio fu il preludio a un’ultima svolta: si capì che alzando l’asticella con il mondo dell’arte è anche più facile scottarsi. C’è chi andò comunque fino a luglio a vedere i falsi capolavori di Modigliani. A vedere l’effetto che fa. Un mese dopo questa assurda vicenda arrivò il momento di scegliere davvero l’erede di Borzani. Insomma, si doveva decidere se piangere o ridere. Il nuovo presidente era (ed è) Luca Bizzarri: un comico.