Inevitabile, in questo strano 2020 pandemico, pensare a quello che è stato il Festival di Locarno, a quella condivisione che non c'è più. E che speriamo ritorni
“Sai che è la prima volta che vedo davvero Piazza Grande?” mi dice un collega, a Locarno qualche giorno per seguire questa edizione ibrida del festival del film: abituato alle migliaia di sedie nere e gialle, al gigantesco schermo, al popolo di festivalieri che si muove da una proiezione all’altra, alla Rotonda, per la prima volta vedeva una Locarno “al naturale”, nella sua anormale normalità.
Inevitabile pensare a quello che è stato, negli anni passati, il Festival internazionale del film di Locarno, e che in questo 2020 a causa pandemia e restrizioni sanitarie non è potuto essere: non tanto dal punto di vista artistico – anche senza Concorso, senza Piazza e senza Retrospettiva, nelle sale e online si è visto del buon Cinema, il che non era scontato –, ma esistenziale, di esperienze che solo al Festival potevano capitare. In un rapsodico elenco inevitabilmente personale e parziale, mi è capitato di sbagliare l’orario di un’intervista e arrivare, sudato e col fiatone per la corsa sotto il sole d’agosto, dal vincitore di più premi Oscar, divertito e perplesso; di pagare per un trancio di pizza e una birra quello che in tempi normali costerebbe una cena con primo secondo contorno e dolce; di trovare bello un film, cambiando idea una volta incontrato il regista e ascoltate le sue spiegazioni; di seguire improponibili conferenze stampa organizzate semplicemente per sfruttare l’eco mediatica del Festival, ma senza avere nulla di interessante da dire; di complimentarmi con un regista per la vincita di un premio che, per questioni di embargo, non sapeva ancora di aver vinto; di restare un’interminabile mezz’ora in una sala, prigioniero del loquace autore del film appena proiettato che non la finiva più di parlare (e di interrogare gli sventurati che provavano ad alzarsi per uscire); di fingere di avere un’amante per ottenere sottobanco un invito in più a uno dei vari party notturni; di perdere il finale di un introvabile film indiano proiettato in Piazza per prendere l’ultimo Tilo ed evitare di dormire in stazione (e ancora adesso, ogni tanto, mi chiedo se la protagonista sia sopravvissuta al morso dello scorpione); di rifugiarmi, un pomeriggio sopraffatto dalla stanchezza, in una sala con il poco nobile scopo di avere un posto comodo e fresco dove dormire, salvo trovare un film greco bellissimo che nonostante il sonno arretrato mi ha tenuto sveglio tutto il tempo.
Quest’anno? Quest’anno ci sono le teste (finte) di dinosauri che spuntano dalla Rotonda divenuta fiera, il sito internet del festival non per scoprire gli ospiti della giornata, ma per vedere alcuni dei film selezionati, le prenotazioni obbligatorie con nome-cognome-indirizzo-telefono, la mascherina nera con il logo del Pardo, il disinfettante prima di entrare in sala. E quei posti, lasciati vuoti per mantenere la “distanza coronavirus”, che diluiscono quell’esperienza di visione collettiva che caratterizza i festival e, più in generale, il cinema.
Questo Festival 2020 è così – e non ce ne vogliamo lamentare, visti le sofferenze ben maggiori che ha portato il nuovo coronavirus. Ci permettiamo, tuttavia, di sperare, l’anno prossimo, di ritrovare non solo il Cinema ma anche l’esperienza e la condivisione che fanno la storie, e le storie, del festival.