Matteo Renzi lascia il Partito democratico. Vai a sapere che cosa ci facesse.
Matteo Renzi lascia il Partito democratico. Vai a sapere che cosa ci facesse. L’interrogativo discende da quello tuttora senza risposta esauriente circa l’accidente storico al quale va fatta risalire l’origine sventurata del Pd. A parziale spiegazione si può dire che fu la combinazione della bancarotta politica degli eredi del maggior partito della sinistra italiana, e della necessità degli ex democristiani di accasarsi per compensare l’erosione di consensi alla loro destra prodotta dal berlusconismo. Preistoria, ma da tener ben presente per tentare di capire la parabola dello sgomitante ex sindaco di Firenze, “capace” di portare il Pd dapprima al 40% dei voti (Europee del 2014), quindi di trascinarlo con sé nella polvere, fino a imporgli la torsione che ne ha fatto l’alleato di governo dei 5Stelle. Per poi andarsene, informando a mezzo stampa gli ex compagni di partito.
La politica non spiega tutto, talvolta la psicologia la soccorre. Soprattutto quando l’ego diventa la misura del mondo. L’intervista data a ‘Repubblica’ per ufficializzare la scissione è, da questo profilo, un mezzo capolavoro: l’autoritratto di un narciso che sopperisce con il cinismo alla mancanza di spessore e morale politica (limitandosi la sua a suggestioni sparse di Alessandro Baricco, in versione riassunta, oltretutto).
Ma una cosa va detta, ed è forse la più importante per dare conto dello scenario politico dell’Italia di oggi: Renzi non è un marziano, tutt’altro. La sua figura è coerente con la mutazione inaugurata da Berlusconi, in virtù della quale i leader non guidano, ma si sostituiscono ai partiti nella loro fase di definitiva decadenza: servendosene (eventualmente inventandosene uno ad hoc) come taxi o come fanteria. La stessa trasformazione imposta da Salvini alla Lega, che infatti paga per lui lo scotto di una autoesaltazione estiva. Né va in altro modo tra i grillini, acefali per scelta (e per costituzione) e perciò eterodiretti.
E adesso? A dispetto dei surrogati di “visione” con cui ha ammantato la propria decisione, l’ipotesi più plausibile è che Renzi si sia tirato fuori per garantirsi un potere di interdizione nei confronti del governo che pure assicura di continuare a sostenere (e di quelli che lo seguiranno, magari in una prossima legislatura). E poiché il suo “stai sereno” rivolto al presidente del Consiglio richiama sinistramente quello rivolto a Enrico Letta del quale preparava la rimozione forzata, è naturale interrogarsi sulla scelta dei tempi di Renzi, e sugli effetti che la scissione del Pd produrrà sul governo Conte, assegnandogli una data di scadenza che solo lui conosce. Un machiavellismo di seconda mano, che mina la tenuta dell’esecutivo screditando la già problematica affidabilità di una delle due forze che lo compongono, e che peraltro consegna facili argomenti alla propaganda dell’opposizione, e alla diffidenza radicata nella sua componente di maggioranza.
Ma non bisogna dare a Renzi ciò che è d’altri: la disinvoltura con cui Conte e i grillini hanno associato “quel” Pd alla propria impresa (e va bene: bisognava mettere in castigo Salvini) non è seconda alla sua in termini di opportunismo. La virtù a tutto resiste, salvo che al vizio.