DISTRUZIONI PER L’USO

È molto meglio non estradare Assange

Il fondatore di WikiLeaks non è forse né un martire, né un criminale. Ma il suo destino riguarda tutti

Keystone
21 aprile 2019
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“Prima che il suo cervello iniziasse a rattrappirsi, Barney Panofsky si aggrappava a due convinzioni: la vita è assurda e nessuno può davvero capire nessun altro”. Cerco di spiegarmi la vicenda di Julian Assange – il fondatore di WikiLeaks arrestato la settimana scorsa a Londra –, ma in mezzo al casino di accuse, sospetti, controversie l’unica cosa che mi torna in mente è questa frase di Mordecai Richler. La vita è assurda, com’è assurdo trovarsi chiusi per sette anni col proprio gatto nell’ambasciata di un paese sul girovita del mondo. E nessuno può davvero capire nessun altro, perché anche se l’opinione pubblica si è subito divisa in opposte tifoserie – alcuni lo ritengono un martire, altri un traditore –, entrare nella testa di Assange è impossibile. Sfogliando ‘La vita segreta’ di Andrew O’Hagan si intuisce che in lui “l’egocentrismo e la negazione della realtà” si mescolano con scelte coraggiose e con la sincera convinzione di poter “cambiare il mondo”.

Scoop

Ma veniamo ai fatti, come dicono i giornalisti quando vogliono darsi un tono. I fatti dicono che Assange ha fornito a tutte le grandi testate del mondo alcuni degli scoop più importanti del nuovo millennio. Ha permesso a giornali come il ‘Guardian’ e il ‘New York Times’ di far conoscere il vero numero di vittime civili in Iraq e in Afghanistan. Ha pubblicato il manuale dell’esercito americano per la gestione dei detenuti a Guantánamo, nel quale si spiegava come nascondere certi prigionieri agli ispettori della Croce Rossa e come isolarli per ‘ammorbidirli’. Ha mostrato il video di un elicottero Apache che sparava indiscriminatamente sulla popolazione di Baghdad. Ha documentato gli abusi dei mercenari di Blackwater e della polizia irachena (stupri, torture, omicidi). Notizie che sono finite su tutti i media del mondo, inclusa ‘laRegione’. Per questo molti paragonano l’attività di WikiLeaks a quella dello stesso ‘New York Times’ ai tempi dei Pentagon Papers, quando rivelò i dettagli del disastro in Vietnam sulla base dei documenti soffiati dall’informatore Daniel Ellsberg.

Credibilità

Ci sono alcune differenze, però. A un certo punto, Assange e WikiLeaks hanno deciso di rompere l’accordo con quelle testate che si preoccupavano di vagliare le informazioni prima di pubblicarle (per sottoporle a verifica, decidere cosa davvero rispondesse a un’esigenza d’informazione, evitare di mettere a repentaglio la sicurezza). Hanno pubblicato centinaia di migliaia di documenti diplomatici senza filtro, senza scelte editoriali, senza preoccuparsi più di tanto delle conseguenze, pur non disastrose come si legge spesso. Poi hanno iniziato a flirtare con l’intelligence russa per pubblicare le famose e-mail di Hillary Clinton, apparentemente nel tentativo di favorire Bernie Sanders; ma aiutando di fatto Donald Trump – proprio come voleva il Cremlino – e dialogando direttamente col suo comitato, come mostra il recente rapporto sul Russiagate (Trump all’epoca diceva di amare WikiLeaks, salvo poi cambiare idea quando non gli faceva più comodo: vatti a fidare di certi amanti).

In quelle e-mail, va detto, non c’era nulla di davvero compromettente. E la dipendenza dai brutti ceffi di paesi dittatoriali – un altro è la Bielorussia – è valsa ad Assange l’accusa di essere “se non un agente nemico, almeno un utile idiota” nelle mani di quei poteri, ‘Economist’ dixit. Aggiungete le tirate sessiste e antisemite, e i sospetti di abusi sessuali in Svezia: quelli che hanno spinto Assange a violare la libertà vigilata imposta dagli Inglesi e rifugiarsi nell’ambasciata ecuadoriana. Non stupisce che il fu eroe della libertà di stampa abbia perso buona parte della sua credibilità.

Le accuse

Adesso è venuta meno la protezione diplomatica, per volontà del nuovo presidente ecuadoriano Lenín Moreno. Assange è stato arrestato da Scotland Yard e rischia l’estradizione in America. (La vita è assurda, si diceva: chi avrebbe pensato che un Lenin avrebbe puntato il suo indice verso un carcere americano?). Qui le cose si fanno ancora più complicate. Perché la richiesta di estradizione non fa alcun riferimento all’Espionage Act, che sanziona la violazione del segreto di Stato: già sotto Obama il Dipartimento di giustizia capì che non si può perseguire la pubblicazione di una fuga di notizie come spionaggio; si rischia di violare il Primo emendamento che protegge la libertà di stampa. Si stava scherzando con la Costituzione, insomma, e nessuno se l’è sentita. Tanto che perfino Chelsea Manning, la militare che fornì gran parte delle informazioni ad Assange, ricevette la grazia da Obama.

La nuova accusa passa semmai sotto il ‘Computer Fraud and Abuse Act’ (Cfaa), una legge del 1984 che punisce l’accesso a un computer senza autorizzazione. Quello che viene imputato ad Assange è di avere aiutato Chelsea Manning – nota bene: dopo che gli aveva già fornito i documenti effettivamente pubblicati – a ottenere le credenziali informatiche per accedere a un livello di segretezza superiore. A ‘rubare una password’, per farla semplice. Ci sono molti dubbi sulla solidità dell’accusa, ma di certo nessun giornalista, per quanto benintenzionato, penserebbe che fra i suoi diritti ci sia l’equivalente digitale del furto con scasso.

Le implicazioni

Da un punto di vista legale, quindi, è difficile liquidare le accuse americane come un attentato alla libertà di parola. Se davvero Assange si è reso complice di una violazione del genere – dicono i puri di cuore – sia punito, tanto più che si tratta di sanzioni generalmente lievi; una cosa è lavorarsi le fonti per avere nuove informazioni, un altro entrare personalmente in un server del Pentagono. Molti pensano che non sarebbe certo un precedente del genere a imbavagliare i media.

Però però. Leggendo i report sull’atto d’accusa risulta che la legge è applicata in modo incredibilmente ampio. “Parte della cospirazione” sarebbe anche l’uso di sistemi criptati per scambiarsi dati con le fonti, la cancellazione di metadati e chat, insomma cose comuni quando quelle fonti si cerca di proteggerle. E il Cfaa era già stato usato come surrogato dell’Espionage Act contro l’attivista Aaron Swartz, che poi si impiccò. Secondo la ‘Freedom of the Press Foundation’, “l’accusa minaccia molte pratiche comuni nella relazione fra un giornalista e la sua fonte”. Dunque non ne va solo di Assange.

Diversi, ma uguali

Il sospetto legittimo, insomma, è che sia un pretesto pur di mettere le mani su di lui, e al contempo intimidire i media. Poi si vedrà. Anche perché è difficile pensare che una volta ottenuto Assange, la giustizia americana non provi ad allargare il ventaglio di imputazioni. Per questo perfino osservatori critici come l’‘Economist’ mettono in guardia dall’estradizione in America.

Penso che non sapremo mai cos’abbia spinto Assange ad abbeverarsi al kompromat del Cremlino, a fare scelte di pubblicazione in stile “muoia Sansone con tutti i Filistei”. Nessuno capisce mai nessun altro, appunto. Ma come nota sul ‘Washington Post’ Margaret Sullivan, dare Assange “in pasto ai lupi”, trattarlo da impostore narcisista “diverso da noi”, mette in pericolo anche “il giornalismo tradizionale e l’interesse pubblico”. Si gioca col fuoco.