Chi è pronto a puntare su segmenti economici veri, abbandonando privilegi e sfruttamento della manodopera?
Ecco un tema bell’e pronto per animare la campagna elettorale, mi sono detto ascoltando ‘Modem’ (Rete 1) e, la sera, guardando ‘Falò’. Al centro: la Fashion Valley (della Gucci, per intenderci) e le indecenti trame fiscali dei suoi dirigenti per massimizzare i profitti. Innanzitutto un plauso ai giornalisti: mi avete fatto scordare tanti altri (ancora troppi) bla-bla non degni del servizio pubblico e del canone col grosso tema delle architetture fiscali di questi colossi. Un tema che, come una matrioska, ne contiene altri e sul quale sarebbe utile che i partiti si confrontassero. Sì, perché la domanda di fondo è: quale economia reale desideriamo accogliere? Sappiamo che il settore del lusso ha superato come entrate fiscali quello della piazza finanziaria, indebolitasi, col venir meno del santissimo segreto bancario. Di fatto, però, abbiamo scoperto, a seguito d’inchieste penali estere, che per una parte della griffata logistica spuntata qui (quella della multinazionale Kering, a cui appartiene il gruppo Gucci), i conseguenti benefici fiscali, per l’azienda e per i manager (globalisti), si reggono su complicate costruzioni giuridiche che fanno figurare qui attività che in realtà non vengono svolte nella loro reale entità. Così, in Ticino, il prodotto di lusso, creato e prodotto altrove, subisce artificialmente un aumento di valore per poi essere tassato da noi con aliquote di favore (rispetto a quelle ben più alte che si vedrebbe imporre, se fosse tassato fuori dai nostri confini). Sempre qui hanno residenza fittizia alcuni manager che (pare) non si sono mai visti né in azienda né a casa. Scopo? Permettere loro di avere una tassazione di favore in qualità di globalisti (molto più bassa rispetto a quella a cui sottostarebbero ove effettivamente lavorano). Non da ultimo, le condizioni di lavoro: malgrado le regole già introdotte, testimoniano ancora una volta il non rispetto dei diritti dei lavoratori e l’estrema precarizzazione.
Ecco perché i temi caldi di dibattito politico sono parecchi. Cominciando dal lavoro, ci sono le questioni squisitamente sindacali: quali controlli vengono effettuati da ispettorato e commissione paritetica? Se basta una trasmissione per denunciare forti pressioni sulla produttività (difficoltà di accedere ai wc, impossibilità di bere durante i turni, di ripararsi dal freddo, o pianificazione dei turni comunicata all’ultimo momento) c’è un problema che investe il Cantone. Signori, non lasciamoci incantare dal luccichio dei blasonati marchi! Salendo la scala dei nodi emersi è poi ancora il Cantone che deve chiedersi se, dal punto di vista fiscale, il santo è valso la candela. Milioni alla mano, c’è una risposta semplicistica che è quella di dire: sì, perché per anni il settore è stato la nuova gallina dalle uova d’oro. Se è arrivata da noi è perché altri non hanno saputo coccolarla e l’hanno fatta scappare sin qui. Sì, ma è volata qui perché fiduciari e studi legali di primissimo piano, con importanti addentellati, sono stati capaci di costruire scatole cinesi e giustificazioni giuridiche che oggi si sciolgono come neve al sole di fronte a inchieste penali scattate in Paesi vicini.
Finiti i benefici fiscali – ultimo capitolo –, a noi restano capannoni vuoti (come già successo coi caveaux delle banche) e bilanci di un paio di Comuni che dovranno tirare la cinghia. Altra domanda alla politica: chi è pronto ad assecondare la prossima furbata e chi è pronto a puntare su segmenti di produzione di prodotti veri, frutto non di sfruttamento di posizioni di privilegio meramente fiscali e di sfruttamento della manodopera a basso costo che qui lascia sì imposte alla fonte, ma anche tanto inquinamento ambientale e intasamento delle strade? Tema pure questo di dibattito politico pensando al nostro futuro. Anzi no, al presente!