Quali sono i segnali che questo Locarno Festival ci lascia chiudendo in Piazza con un film, ‘I Feel Good’, che, ambientato in una comunità di Emmaus
Quali sono i segnali che questo Locarno Festival ci lascia chiudendo in Piazza con un film, ‘I Feel Good’, che, ambientato in una comunità di Emmaus, ricorda gli ideali persi dell’Abbé Pierre e del comunismo, insieme all’imbecillità irrefrenabile del liberismo dominante? Può ancora il Festival trascinarsi, senza infastidire, senza proporre svolte capaci di ridare fiato a un’idea forte di cinema e non solo a un edificio come il PalaCinema, che appare una cattedrale nel deserto guardando ai capannoni vetusti del Fevi e delle Sale dove ancora si confinano gloriose proiezioni per coraggiosi spettatori, a un Palavideo dove le sedie rotte sono lasciate a far mostra di sé anno dopo anno senza che nessuno pensi di cambiarle, di aggiustarle. Può ancora il Festival diventare per molti solo la Rotonda? Nel mondo del cinema, quello dei Festival, tutto si evolve: le sale chiudono, gli spettatori si perdono. Anche Locarno ha quest’anno pagato in temini di presenze la crisi generale, ma di suo cosa ha fatto per cambiare un trend negativo?
Il presidente Marco Solari se la prende con i commercianti che si lamentano ed esalta il successo della Rotonda. Lui ora riflette sulla successione del direttore Carlo Chatrian, e pensa a come arrivare in sella al Festival numero 75. Ma forse c’è bisogno di una mossa forte, di cambiare questo trend di sopravvivenza, di dare uno slancio a un Festival ingrigito, incapace di entusiasmare davvero, senza grandi idee. E solo il presidente oggi può dare nuova linfa al Festival: perdere questo direttore può anche essere un vantaggio se si ha la ferma intenzione di cambiare, di dare una svolta; se non si ha solo voglia di scegliere chi, in continuità, mantenga il grigio.
In altre parole, occorre una direzione capace di cogliere il momento e il tempo, che abbia contatti con Netflix e Amazon, con Arté e gli altri grandi gruppi che conquistano il panorama mondiale del cinema. Sappiamo che la rigidità imposta dal mercato a Cannes ha permesso a Venezia di dialogare con Netflix. Sappiamo anche che Locarno non potrà mai dimenticare gli autori, ma una miscela tra le due esigenze – popolarità e arte cinematografica – può veramente cambiare il destino di questo Festival da troppo fermo a guardarsi allo specchio. Pensiamo se le quasi 14 ore di ‘La Flor’ fossero state usate per presentare una nuova serie su grande schermo: avrebbe interessato di certo più pubblico delle poche decine di persone che hanno seguito le proiezioni mattutine del film di Llinás. Ecco che la scelta del nuovo direttore o direttrice deve passare proprio dall’idea di ciò che vuole essere il Festival.
Fra gli altri, un problema è quello legato all’Industry. Ci crede ancora il Festival a questa idea? Abbiamo ascoltato molte lamentele: una per tutte, nel 2018, la difficoltà a Locarno di connettersi a internet. Anche su questo fronte qualcosa bisogna fare, che non sia eliminare il catalogo cartaceo (mentre internet non funziona), togliendo ai professionisti la possibilità d’incontrarsi. Poi, ci sono i limiti della Library in cui i professionisti accreditati possono recuperare i film presentati, ma che dopo i dieci giorni di Festival resta aperta in linea solo in Svizzera e non per i giornalisti esteri.
Tornando ai film, sono stati pochi in concorso, 15, ma ancora tanti nell’insieme: snellire potrebbe essere un bel lavoro da fare. Bella la retrospettiva dedicata a Leo McCarey, ma passare tanti film muti senza accompagnamento musicale non è stata una grande idea: il cinema muto non era mai silenzioso, trovava nella musica la sua esaltazione, toglierla è tradire il senso di quel cinema.
Un Festival del cinema deve sempre rispettare il Cinema.