Le persone rifugiate sono spesso accusate di far esplodere i costi sociali. Per loro però l’accesso a un impiego è condizionato da numerose limitazioni
Si possono definire “contraddizioni della società ospitante” e nell’attuale campagna per le Elezioni federali si stanno manifestando più forti che mai. Da un lato, soprattutto da parte della destra nazionalista e populista, viene imputato alle persone di origine straniera, “in particolare i richiedenti l’asilo/rifugiati” – ovvero innanzitutto persone alla ricerca di una protezione umanitaria –, di pesare sul bilancio dello Stato molto di più degli svizzeri, di essere responsabili dell’esplosione dei costi sociali, “o per dirla in altro modo – citando l’edizione straordinaria del giornalino Udc recapitata a tutti i fuochi in settembre –: un africano su tre che potrebbe lavorare vive a spese della collettività”. Dall’altro lato proprio l’inserimento nel mondo professionale di persone con questo tipo di percorso migratorio alle spalle è reso molto difficoltoso da una serie di fattori istituzionali e dallo stesso clima politico.
Quello relativo alla presenza di persone straniere nel mercato del lavoro è un argomento molto emozionale, facilmente intrecciabile con le difficoltà che i cittadini possono incontrare in periodi di crisi, come far fronte ai costi della vita sempre più alti o trovare un impiego adatto ai propri bisogni. Gli ambienti politici citati sfoderano carte elettoralmente vincenti facendo leva sulle preoccupazioni comuni e imbastendo discorsi che riconducono la perdita di benessere alla migrazione e all’eccessiva attrattività della Svizzera. Ma dati e studi alla mano, la situazione si rivela ben diversa. In primo luogo le persone nell’ambito dell’asilo sono una piccola percentuale della popolazione: a fine 2022, stando alla Segreteria di Stato della migrazione (Sem), erano 204’374 contando anche i bambini, circa il 2,3% della popolazione: «Spesso si perdono di vista le proporzioni e si dà credito a un approccio poco costruttivo che non prende in considerazione la realtà, ma solo opinioni e percezioni», afferma Anja Tamò-Gafner, docente e ricercatrice presso il Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale alla Supsi e autrice di una tesi di dottorato presso l’Università di Ginevra pubblicata nel 2022 dal titolo ‘Percorsi di integrazione professionale di persone rifugiate in Svizzera. Traiettorie individuali, condizioni salariali e racconti dei datori di lavoro’, questi ultimi raccolti in Ticino.
«Quando nella tesi mi riferisco a persone rifugiate – sottolinea Tamò-Gafner – intendo sia persone che sono ancora in corso di procedura d’asilo e attendono l’esito rispetto alla loro richiesta (permesso N), sia a quelle che hanno ottenuto un permesso B come rifugiati o un permesso F di ammissione provvisoria». E proprio il distinguo dei permessi è un fattore istituzionale determinante per quanto riguarda le possibilità di accesso al mercato del lavoro e le condizioni di impiego. «Per ogni categoria di permesso i diritti sono particolari – specifica Tamò-Gafner –. Ad esempio chi ha un permesso N nei primi mesi non ha diritto di lavorare e in seguito è confrontato a restrizioni che concedono la priorità a chi è residente in Svizzera, a chi ha un permesso B o F, a lavoratori che provengono dall’Ue. Inoltre hanno l’interdizione al ricongiungimento familiare, ciò che comporta delle preoccupazioni quotidiane che possono avere un impatto sulla ricerca di un impiego. Spesso poi si trovano ancora in alloggi collettivi e in alcuni Cantoni non hanno accesso alle misure di integrazione. In Ticino dal 2019 alcune di tali misure esistono anche per chi ha un permesso N, ma raramente queste persone sono considerate dal mercato perché non è sicuro che possano rimanere». Per quanto riguarda le persone con permesso F «grazie all’implementazione negli anni delle misure di integrazione a loro rivolte, il tasso di entrata nel mondo del lavoro è aumentato. Tuttavia, una volta dentro, il loro impiego è spesso caratterizzato da una forte precarietà. Sono più a rischio di trovarsi in categorie del mercato contraddistinte da bassi salari – rileva la ricercatrice –, come la ristorazione e la cura delle persone. Quindi a livello gerarchico operano normalmente in settori e posizioni professionali più bassi. Durante la fase più acuta della pandemia si è ben visto che proprio i lavoratori di questi settori professionali, come quello alberghiero e affini, sono stati molto più toccati dalla crisi e dal rischio di licenziamento».
A monte di questa segmentazione lavorativa, illustra Tamò-Gafner, ci sono varie ipotesi da approfondire a livello di ricerca. Una delle quali è «il generale desiderio di queste persone di uscire con urgenza dall’assistenza sociale, ciò che le può mettere in condizioni di dover accettare stipendi molto bassi. Tale urgenza in parte può essere data dal fatto che col permesso F, se vogliono farsi raggiungere dalla propria famiglia (moglie, marito o bambini sotto i 18 anni), oltre a dover aspettare tre anni dal momento dell’arrivo in Svizzera, non devono essere dipendenti dall’assistenza. C’è poi da considerare che per molti datori di lavoro la dicitura “provvisorio” può spaventare per cui l’offerta, se esiste, è di frequente limitata a impieghi a breve termine e precari». Inoltre, aggiunge Tamò-Gafner, «i possessori di un permesso F non hanno il diritto di uscire dalla Svizzera, tranne per eccezioni molto complicate da far valere. Eppure l’aspetto della mobilità è particolarmente importante nel mondo del lavoro». Concretamente, esemplifica la ricercatrice, «un datore di lavoro che ho intervistato, molto soddisfatto del proprio apprendista con permesso F, ha raccontato che la ditta aveva organizzato un workshop d’équipe in Italia e che per permettere all’impiegato di uscire temporaneamente dal cantone è stata fatta la debita richiesta alle autorità competenti: una pratica che però richiede un certo tempo di evasione e dei costi. Dato che il mondo delle aziende gira veloce, questa mobilità restrittiva può essere un ulteriore freno alle assunzioni».
La politica dei permessi nell’ambito dell’asilo è gestita a livello federale, e prevede una chiave di riparto secondo la quale ogni Cantone proporzionalmente a popolazione e ad altri criteri si vede assegnare un certo numero di persone, le quali non hanno voce in capitolo sull’ubicazione. In Ticino attualmente la quota parte è del 4%. Le probabilità di entrare nel mondo del lavoro variano però molto in funzione dei Cantoni a causa di una moltitudine di fattori. «A influire possono essere la situazione economica (ci sono delle opportunità di impiego o no?), la predominanza di certi settori di attività, come quello del turismo, così come le politiche di integrazione», evidenzia Tamò-Gafner, che a questo proposito rileva: «Tutti i Cantoni sono tenuti a promuovere l’integrazione professionale, però ognuno lo fa a suo modo. Il Ticino è abbastanza attivo in questo senso. Allo stesso tempo, però, il clima politico sfavorevole all’immigrazione e all’accoglienza delle persone rifugiate influisce sulle possibilità offerte loro. Perché anche il mondo professionale è il riflesso di certi discorsi».
Per quanto riguarda i riscontri dei datori di lavoro intervistati – che sottolinea Tamò-Gafner sono alcuni tra quelli che hanno deciso di assumere persone rifugiate e quindi con una certa predisposizione – «in genere hanno riportato esperienze molto positive. In diversi danno particolare importanza alla cosiddetta responsabilità sociale dell’impresa e riscontrano anche nei clienti il riconoscimento dell’impegno aziendale in questo ambito. Anche il fatto che le persone rifugiate parlino altre lingue è apprezzato per creare sinergie e cooperazioni con aziende in altre parti del mondo o sviluppare progetti innovativi in loco». Non mancano però anche testimonianze di difficoltà, con dei clienti che al contrario si sono dimostrati reticenti: «In un’azienda alcuni hanno minacciato di non più comprare prodotti perché era stata assunta una persona rifugiata. Quindi pure chi riesce a superare le barriere per accedere a un posto di lavoro poi magari si trova confrontato a delle discriminazioni e manifestazioni di razzismo, che possono arrivare anche da parte dei colleghi». Tamò-Gafner traccia un paragone con le disparità ancora ben presenti nel mercato del lavoro per le donne: «Sono questioni che è importante continuare ad affrontare. Anche perché la situazione è contraddittoria rispetto ai valori universali e ai diritti umani che la Svizzera dice di voler promuovere. Purtroppo molte pratiche vanno ancora in senso contrario».
Un altro aspetto che incide negativamente sulle possibilità di inclusione nel mercato del lavoro è la devalorizzazione dei diplomi ottenuti all’estero. «Ci sono medici, infermieri, giuristi, ingegneri... Insomma c’è una varietà di professioni che le persone approdate in Svizzera hanno praticato in precedenza e che qui non sono riconosciute – osserva la nostra interlocutrice –. Questo è un problema che concerne non solo chi è in ambito d’asilo, ma loro in modo particolare perché spesso vengono da nazioni con cui la Svizzera non ha accordi sui diplomi». Nel quadro della promozione dell’integrazione viene sovente proposta una formazione o una riqualifica legata o meno ai titoli di studio acquisiti: «Questo può aprire a più opportunità, dato che un attestato conseguito in Svizzera è molto apprezzato dai datori di lavoro, come emerso dalle interviste. Però non è così evidente. Nell’ambito della salute, per esempio, i medici spesso non vengono riconosciuti e viene proposto loro di riqualificarsi. Nel caso fossero assegnati al Ticino e volessero studiare medicina da zero, se a beneficio dell’assistenza non potrebbero farlo in quanto non avrebbero diritto a cambiare cantone, considerando che da noi c’è solo il master. Senza dimenticare che ci sono persone già di una certa età, con magari una famiglia, per le quali ricominciare tutto da capo rappresenta un’enorme sfida».
Esistono dunque numerosi ostacoli all’inclusione professionale legati al contesto in cui queste persone si trovano, ai permessi, ai Cantoni, al sistema di riconoscimento dei diplomi, che sembrano ancora prevalere rispetto alle misure per accompagnarle nel percorso di integrazione o alla predisposizione di alcuni datori di lavoro che vedono in loro un valore aggiunto. «Sono persone considerate professionali che dimostrano grande voglia di integrarsi e conferiscono molta importanza al lavoro: è quanto emerge dalle interviste. Ma non basta la buona volontà a livello individuale – commenta Tamò-Gafner –, è necessario che ci siano una società e un contesto che diano loro delle reali opportunità che potrebbero per esempio anche far fronte a problematiche come la penuria di apprendisti in certi settori. Ma non deve essere solo una questione utilitarista – conclude la ricercatrice –. Sebbene non sia possibile cambiare le esperienze delle persone rifugiate prima del loro arrivo, è possibile migliorare le opportunità che esse possono avere nel Paese ospitante».
Un bisogno nuovo rispetto al passato sta emergendo da diversi governi europei, inclusi alcuni Paesi «non particolarmente famosi per la simpatia verso gli immigrati, come l’Italia»: quello di manodopera da fuori continente, sotto una pressione esercitata dalle organizzazioni imprenditoriali. A rilevarlo è Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni all’Università degli Studi di Milano, molto noto in Italia per vari saggi sul tema. Lo abbiamo intervistato.
Keystone
Ristorazione e albergheria tra i settori con più necessità di manodopera
Come si spiega questa nuova necessità di manodopera extra-europea?
Le ragioni sono varie. Da una parte influisce l’inaridimento dei bacini dell’Est Europa comunitaria – Romania, Polonia, Bulgaria – che per diversi anni avevano fornito gran parte della manodopera richiesta dall’Europa occidentale per le mansioni meno qualificate e meno socialmente riconosciute. Si può inoltre spiegare con una crescente incoerenza tra le attese dei residenti e le offerte dei datori di lavoro. In questo senso il caso italiano è paradigmatico: nella Penisola abbiamo ancora delle sacche di disoccupazione mostruose in particolare nelle Regioni del Mezzogiorno e soprattutto per quanto riguarda la popolazione giovanile e quella femminile. Al giorno d’oggi per i giovani del Sud Italia l’idea di andare a lavorare al Nord, ad esempio come manovali nell’edilizia, non è più attrattiva: considerando che oltre l’80% dei giovani del Paese conseguono un diploma di scuola media superiore e dunque investono negli studi, un lavoro manuale poco riconosciuto, faticoso, a volte pericoloso, con l’onere aggiuntivo di dover sopportare dei costi abitativi e di trasferta, non rappresenta un’ambizione. Per quanto riguarda più in generale le donne, incidono i vincoli familiari che gravano ancora molto sul loro conto e rendono complicati sia i trasferimenti, sia il pendolarismo. Le misure di conciliazione tra lavoro e vita familiare sono spesso carenti e le difficoltà si riscontrano soprattutto in settori come la ristorazione o l’industria alberghiera – dove si lavora anche nei fine settimana, la sera, a turni –, che non a caso in vari Paesi soffrono per la penuria di personale. Aggiungerei anche il fatto che solitamente il lavoro manuale è poco pagato. C’è un ristagno dei salari che non riescono più a coprire i costi della vita in aumento, e questo demotiva ancora di più ad accettare impieghi considerati inadeguati. Ecco perché si cercano lavoratori provenienti da fuori che garantiscono maggiore disponibilità.
Eppure continua l’offensiva anti-migranti: è un discorso strumentale proprio per mantenerli deboli e disponibili?
Generalmente non sono i datori di lavoro o le forze economiche i protagonisti della criminalizzazione dei migranti. Si può rimproverare loro di fare poco per difenderli da certi discorsi, di rimanere in silenzio rispetto alle politiche governative, ma a veicolare tale offensiva sono i politici che sfruttano ansie e paure degli elettori, come quelle che derivano dagli effetti della globalizzazione in termini di insicurezze e che trovano sfogo nel capro espiatorio proprio degli immigrati. Accanto alla responsabilità dei politici che speculano su questi temi per prendere voti c’è quella dei media che li seguono per vendere di più. È vero, tra le conseguenze del clima di paura e di rifiuto degli immigrati nonché delle restrizioni messe in campo si trovano anche gli impieghi irregolari, i contratti stagionali, temporanei o a breve termine particolarmente precari. Ma il fatto che in Italia come in altri Paesi i datori di lavoro spesso, quando se ne presenta l’opportunità, si impegnino a regolarizzare i migranti smentisce un po’ l’idea che ci sia una strategia per sfruttarli meglio. Personalmente non mi riconosco in questa griglia di lettura piuttosto popolare tra diversi colleghi studiosi.
Lei sostiene che una visione patologica del fenomeno migratorio abbia trionfato sul piano culturale e comunicativo. Perché questo è avvenuto?
Su questi due piani per quanto riguarda il tema della migrazione la destra esercita un’egemonia e così anche chi non ha la stessa visione è costretto a dibattere in un quadro culturale da essa definito. Si impone ad esempio l’idea che sia in corso un aumento drammatico dell’immigrazione in conseguenza degli sbarchi. Da inizio anno questi hanno portato in Italia 140mila persone che sul totale di 5 milioni di immigrati rappresentano una componente marginale. Perché dunque domina lo schema della destra? Mi rifaccio a un ragionamento del sociologo polacco Zygmunt Bauman. Citavo prima l’insicurezza seminata dalla globalizzazione, ebbene Bauman afferma che ci sono tre parole in inglese per dire “sicurezza”. La prima è “security”, che si riferisce alla sicurezza delle basi materiali della vita: avremo ancora un lavoro? Un welfare? Delle pensioni per affrontare la vecchiaia? Rispetto a ciò, la globalizzazione ha seminato insicurezza e la persona comune non può farci nulla. Il secondo livello è quello della “certainty”, la certezza, anzi le certezze, in questo caso, morali: il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, la dimensione spirituale. Anche queste sono diminuite, ad esempio con la secolarizzazione e la caduta delle grandi ideologie del Novecento. Le persone hanno meno certezze e non possono farci nulla. La terza parola è “safety”, incolumità: potrò tornare a casa tranquillo la sera? Mia figlia potrà uscire senza essere importunata? Questo è l’unico livello, dice Bauman, in cui le persone comuni possono fare qualcosa. A tale riguardo la percezione è di maggiori pericoli nelle città, ma, almeno per l’Italia, non è vero. Omicidi, rapine, rapimenti sono nettamente diminuiti, ma i cittadini percepiscono l’aumento del pericolo in quanto scaricano sull’incolumità le paure che sperimentano negli altri due livelli. Ecco perché si chiudono in casa e guardano con diffidenza le facce diverse che circolano per il quartiere. Gli immigrati diventano così il simbolo di un mondo minaccioso. Oltre a mettere la porta blindata, si chiede di allontanare e tener fuori dalle nostre città questi portatori del virus dell’insicurezza.
Lo scorso anno oltre la metà dei lavoratori occupati in Ticino, pari al 53,4%, era di origine straniera, una percentuale cresciuta nell’ultimo decennio del 6,9%, come rileva l’Ufficio di statistica del canton Ticino (Ustat). Decennio in cui i posti di lavoro sono aumentati e la disoccupazione è scesa. «Questi dati danno idea di quanto nel mercato del lavoro del nostro cantone giochino un ruolo di primo piano lavoratrici e lavoratori non svizzeri», commenta il segretario regionale del sindacato Unia Ticino Giangiorgio Gargantini. Che illustra: «La presenza di lavoratori stranieri è riscontrabile in tutti i settori professionali del cantone, ma in alcuni è più rilevante. Non disponiamo di statistiche precise, ma come sindacato constatiamo che il numero di lavoratori stranieri residenti (che sono il 21,8% del totale delle persone occupate, ndr) si mantiene importante nei settori storicamente a presenza di immigrati, come quelli del cantiere, in alcuni rami industriali e nella ristorazione. Mentre i lavoratori frontalieri (il 31,6% del totale delle persone occupate, ndr) sono in crescita soprattutto nel settore terziario, dove attualmente costituiscono il 67,3 per cento».
A livello retributivo, evidenzia Gargantini, mediamente i lavoratori frontalieri percepiscono quasi il 10% in meno dei lavoratori residenti: «Una differenza dovuta al fatto che molti di loro svolgono professioni caratterizzate da condizioni di impiego particolarmente precarie, come quelle della vendita, impiegati nella logistica o nel settore impiegatizio. Con certi livelli salariali che si vedono in quegli ambiti è difficile risiedere in Svizzera per cui molti lavoratori continuano a fare i frontalieri o perfino lo diventano». Il problema, secondo il segretario regionale di Unia, sta nel fatto che «in molti rami del terziario non ci sono i Contratti collettivi di lavoro (Ccl) che stabiliscono salari minimi e griglie retributive e controlli, i quali scongiurerebbero tra l’altro il rischio di discriminazioni tra residenti e non, che vengono spesso a galla».
Il mercato del lavoro del nostro cantone è noto per il livello retributivo più basso in Svizzera, ciò che per Gargantini non è primariamente da ricondurre alla posizione geografica che lo vede incuneato nella regione Lombardia, bensì a precise scelte politiche di non regolamentazione. «Cito, come esempio di visioni politiche, le ultime due grandi discussioni sui rapporti tra Svizzera ed Europa: la richiesta di abolizione della libera circolazione delle persone e la questione dell’Accordo quadro con l’Ue. Nel primo caso, la proposta dell’Udc (respinta alle urne nel settembre 2020, ndr) vedeva Unia schierata contro gli iniziativisti per difendere il diritto alla circolazione delle persone e allo stesso tempo le pur magre misure di accompagnamento sul mercato del lavoro senza cui la situazione sarebbe ancora più difficile di quella odierna. Misure di accompagnamento combattute dal mondo padronale che si è maggioritariamente espresso a favore dell’Accordo quadro che andava a peggiorare pesantemente la protezione salariale dei lavoratori impiegati in Svizzera. Risulta evidente che quando si tratta di discutere degli interessi dei salariati, svizzeri e non, la distinzione tra Udc e gli altri partiti borghesi viene meno e a prevalere sono gli interessi della classe padronale, come dimostra ancora una volta il nuovo mandato negoziale verso l’Ue annunciato in questi gironi dal governo federale», recrimina Gargantini.