Sempre più celebrità diffondono pubblicamente notizie sul proprio stato di salute. Ma l’intento è sempre nobile? Ne parliamo con la sociologa
Parlare dei propri problemi di salute, anche gravi, pubblicamente o viverli lontani dai riflettori? Un dilemma che, soprattutto nell’epoca dei social, divide profondamente. Se poi a mettere "in piazza" la propria malattia è un influencer o un vip il dibattito si accende ulteriormente. Negli ultimi tempi non sono mancate uscite pubbliche come quella di Fedez, che ha offerto una copertura mediatica quasi integrale della sua disavventura con un tumore raro, pubblicando non solo le foto dall’ospedale, ma anche la registrazione della conversazione con il medico che comunicava l’esito degli esami. E c’è anche chi su Instagram, fra un selfie e l’altro, aggiorna regolarmente il conteggio delle patologie diagnosticate a suo carico. Altri, come il pianista Giovanni Allevi, hanno invece comunicato via social un problema di salute in modo più discreto, per spiegare soprattutto il prossimo periodo di lontananza dalle scene. A volte si arriva all’esito tragico, all’ultimo post sui social pubblicato poco prima di morire, l’ultima immagine o le ultime parole di sé stessi da vivi.
Ma cosa spinge a fare della propria salute un argomento di pubblico dominio, anche fino al momento estremo? E quali sono le conseguenze sul pubblico, sia esso l’audience dei social o la propria cerchia di contatti social? Ne parliamo con Fiorenza Gamba, ricercatrice presso l’Istituto di ricerche sociologiche dell’Università di Ginevra.
Cos’è che oggi spinge molte celebrità, ma anche persone comuni a esporre mediaticamente la propria malattia, in alcuni casi arrivando a documentarla passo dopo passo?
Volendo dare una risposta "maligna", si potrebbe pensare alla necessità di mettersi in mostra anche in questi momenti, e cinicamente aggiungo, visto che non si sa per quanto lo si possa fare. Ma ritengo che la ragione più plausibile sia un’altra: è un modo per testimoniare che si è esseri umani fragili, che si può venire colpiti come chiunque da malattie. Il fatto di condividere è un elemento di testimonianza e di forza, un monito. È sufficiente pensare a persone che hanno contratto delle malattie, magari rare, che cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica su di esse. Sono molti i motivi, che si possono osservare, che hanno grande peso in questa diffusione. È troppo semplice dire che ci si vuol far notare anche quando si è malati, o, ancora peggio, pensare che si cerca solo di catturare l’attenzione attraverso la malattia, meno grave di quanto si vuol far credere. Accade anche questo, ma nella stragrande maggioranza dei casi si tratta veramente di uscire dal tabù della malattia e portarla in una dimensione umana e condivisa. Ci sono tantissimi esempi in questo senso, di persone che condividono la propria malattia sia che questa abbia un esito letale, sia che risulti non letale ma altamente invalidante, obbligando i malati a condurre una vita totalmente diversa.
E poi, è anche uno stimolo per altre persone a resistere, a non scoraggiarsi, a lottare. Infatti, molto spesso la malattia ha un doppio aspetto: è una patologia, quindi mette in difficoltà, affligge la persona malata, ma crea anche un isolamento rispetto agli altri. Che è come essere malati due volte. E quindi nel fatto di voler comunicare la propria malattia si può vedere chiaramente l’intenzione di non essere isolati, di continuare a far parte della comunità e della vita.
Parlando di malattie con esito poi letale: può essere d’aiuto per chi rimane il fatto di "abituarsi" pian piano anziché apprendere della notizia repentinamente come
un tempo?
Certamente, questo può rientrare nell’ambito di quelli normalmente definiti rituali di commemorazione online. Quando la persona cara muore, chi rimane spesso trova un beneficio dal fatto di poter disporre di supporti digitali per poter ricordarla in una maniera, emotivamente forte, quasi fisica, anche se fisica non è. In questo senso non solo le immagini, ma anche la voce svolge un ruolo importantissimo. Sentire la voce di una persona a cui si è voluto molto, molto bene, a cui si era molto legati, è un’emozione che a volte può essere anche troppo forte, ma è anche un modo per sentirla ancora presente.
Oltre ai messaggi lasciati quando si è ancora in vita, ci sono però anche casi di utilizzo della tecnologia per ricostruire la voce di persone già defunte: è un bene o un male?
Impossibile dirlo a priori. Indubbiamente sono forme che insistono sul dolore, ma mentre per alcuni possono essere problematiche, per altri non lo sono, al contrario sono un modo per elaborare il lutto. Emblematico il caso di Jang Ji-sung, la madre sudcoreana che ha "ritrovato" la propria figlia morta "riportata in vita" grazie all’intelligenza artificiale in un documentario diffuso dalla rete sudcoreana MBC e che ha milioni di visualizzazioni su YouTube. Grazie alla ricostruzione fatta tramite algoritmi, la donna ha potuto passare un momento con la figlia nel giorno del suo compleanno e prendere commiato. Le polemiche non sono mancate: se alcuni hanno sostenuto legittima la scelta della madre, altri l’hanno giudicata moralmente inaccettabile. Tuttavia, in un’intervista la donna ha affermato che non ha creduto nemmeno per un momento che la figlia fosse ancora viva, semplicemente, siccome non aveva avuto modo di salutarla come avrebbe desiderato, l’esperienza le ha permesso di dirle che le voleva bene, di avere un momento di commiato che la realtà non le aveva concesso: ora che il commiato è avvenuto, anche se digitale, può ritornare alla normalità.
Quindi ha poco senso generalizzare o stigmatizzare queste pratiche, è sempre la dimensione personale che le rende positive o negative. Naturalmente, devono essere posti dei limiti che proteggano categorie particolarmente fragili (bambini, adolescenti), ma si tratta di modi che possono essere un sostegno per superare un momento di difficoltà come quello dell’elaborazione del lutto, che è un passaggio comune a tutti: dire addio a persone care e, recentemente, spesso non avere nemmeno l’opportunità di farlo. Una impossibilità di commiato alla quale il Covid ci ha messo di fronte in maniera brutale, ma che era già per molti una condizione legata alla mobilità. Oggi le nostre vite sono vite mobili, ci spostiamo spesso, cambiamo più volte città, lavoro, conoscenze, una condizione che impone, tra altri, nuovi modi di elaborare il lutto, di dire addio e ricordare le persone che non ci sono più, quindi anche tramite strumenti digitali.
Dall’altra parte, però, come accennava lei all’inizio, c’è anche un aspetto "maligno", quello di chi sfrutta la propria condizione per una forma di visibilità.
Certamente c’è questo rischio, soprattutto quando la malattia non è così ben definita e non si ha certezza della sua gravità. Indubbiamente, per alcuni può essere veramente un mezzo per alimentare la propria visibilità. Tuttavia si tratta di un modo di porsi, una forma di spettacolarizzazione, già esistente e non esclusivamente legata al digitale, anche se indubbiamente oggi è molto più semplice da realizzare grazie ai social network e, più in generale, a internet.
Non c’è il rischio che questa esposizione mediatica "normalizzi" la malattia facendo abbassare anche la guardia rispetto alla prevenzione?
È una possibilità. Negli anni 50 Geoffrey Gorer pubblica "La pornografia della morte", che mette in evidenza come malgrado la morte sia un tabù, e per molte persone un fatto primariamente privato, questo non impedisca la sua spettacolarizzazione, definita non a caso pornografia dall’autore. Quindi c’è indubbiamente il rischio che venga spettacolarizzato, che venga affrontato con superficialità questo passaggio doloroso della vita come può essere la malattia o la morte.
Perché, secondo lei, c’è questa forma di attrazione da parte del pubblico verso la malattia, la tragicità?
Le ragioni sono molteplici. Prima di tutto la morte, la sofferenza, ci mettono tutti, almeno idealmente, sullo stesso piano, qualsiasi sia la nostra condizione, qualsiasi sia la nostra appartenenza. In altri termini, davanti alla morte, alla malattia siamo tutti uguali. Al tempo stesso, è la narrazione che attrae l’essere umano. Abbiamo bisogno di storie e produciamo continuamente narrazioni su qualsiasi aspetto della nostra vita, su noi stessi, sugli altri, sul mondo. La morte, la malattia, sono temi estremamente fecondi per creare una narrazione, hanno tutti gli elementi per creare una storia, catturano l’interesse. Si tratta quindi di una dinamica interessante, che in ogni caso non può essere generalizzata in maniera indiscriminata, poiché l’attitudine nei confronti di morte e malattia non è univoca: da un lato c’è una grande attrazione, che può diventare morbosa, dall’altro c’è un rifiuto a entrare in relazione con la morte o la malattia. Certamente il lato della spettacolarizzazione colpisce di più, è sufficiente pensare al successo delle crime stories, e alla loro rappresentazione della medicina legale, in cui i cadaveri sono l’elemento di snodo della narrazione.
In definitiva: è l’esistenza dei social che spinge le persone a esibire anche la malattia, o viceversa, semplicemente i social aiutano a fare ciò che non si poteva fare prima, in termini, come dicevamo, di sensibilizzazione? Quanto, insomma, è "colpa" e quanto è "merito" dei social?
In quanto osservatrice delle dinamiche digitali che riguardano il lutto, la commemorazione, la memoria, la mia esperienza mi porta a non usare le categorie di colpa o merito. Gli strumenti digitali, in ragione della facilità di accesso e uso, accolgono e favoriscono bisogni e desideri, anche quelli di visibilità. In questo senso, danno spazio a esigenze che, in modi e con strumenti diversi, si sono sempre manifestate.
Possono certamente produrre effetti negativi, ma sono effetti che non sono prerogativa esclusiva del digitale. Il lutto patologico ad esempio, non è un disturbo provocato dai rituali e dalle commemorazioni online, ma una particolare forma di disturbo che si manifesta tanto nel mondo fisico quanto in quello digitale. Quindi, anche per i temi della morte e della malattia, il digitale raccoglie tendenze, desideri, sogni, e permette loro in parte di realizzarsi.