Da un paio di anni seguo al Tribunale penale federale (Tpf) i processi di Svizzeri accusati di avere infranto la legge federale che vieta i gruppi al-Qaida e Stato islamico nonché le organizzazioni associate. Che sia l’“accoltellatrice della Manor” di Lugano, l’“assassino del kebab” di Morge, la casalinga di Friborgo che faceva girare video di propaganda, o in questi giorni, i genitori di Daniel D. – considerato qualche anno fa “il jihadista svizzero più pericoloso”, che ora sta languendo in un campo di prigionieri in Siria in condizioni spaventose – accusati di avere mandato più di 50’000 franchi al figlio, c’è un denominatore comune: un profondo disagio sociale. Ogni volta i processi hanno dimostrato che dietro il cosiddetto terrorismo c’è una grande miseria umana con storie di vita penosissime.
La Svizzera non rimpatria i suoi jihadisti fatti prigionieri all’estero, anche se marciscono in prigioni affollate diventate focolai di tubercolosi. Una decisione che da un punto di vista umanitario può essere discutibile. Ma in una prospettiva prettamente di prevenzione, la Confederazione potrebbe rimpatriarne un paio per farli testimoniare della loro esperienza che spesso non ha nulla di eroico. Questi ragazzi e uomini potrebbero raccontare nelle scuole come i loro documenti sono stati confiscati e come sono stati costretti a vivere in condizioni durissime, senza avere la libertà di tornare indietro. Questo per dare una visione più realistica a chi tende a idealizzare i combattenti jihadisti e che per dare un senso alla propria vita considera imbarcarsi per la guerra santa. Magari contribuirebbe a evitare ulteriori drammi familiari ed eventuali attacchi terroristici, ma anche a risparmiare spese per procedure legali lunghissime che vengono coperte dai contribuenti.