In Israele esiste un movimento formato da israeliani e palestinesi chiamato ‘Standing Together’ che da otto anni lotta per unire le due parti in conflitto organizzando regolarmente proteste, marce e azioni solidali all’insegna dell’uguaglianza, della pace e della giustizia. Ne ha parlato di recente il settimanale svizzero-tedesco Woz, mostrando che si può affrontare il tema del conflitto tra Israele e Palestina in modo diverso, al di là delle fazioni politiche, dell’antisemitismo, delle polemiche e dei pregiudizi.
Nell’articolo la giornalista Anna Jikhareva intervista due attivisti di Standing Together, Rula Daood, palestinese, e Alon-Lee Green, israeliano, per presentare una realtà diversa, di speranza. Veniamo così a sapere che in Israele sono state decine di migliaia le persone scese in piazza – nonostante repressioni e minacce – per sostenere il piano di pace di Biden, dimostrando di non volere solo la restituzione degli ostaggi, ma di essere anche favorevoli a porre fine alla guerra, a trovare un compromesso, insomma. Green sottolinea che ogni singola famiglia dei sequestrati sarebbe favorevole a questa soluzione. È infatti ampia la fascia della popolazione che la pensa come i membri di Standing Together e che crede nella condivisione del territorio e nella convivenza pacifica, invece di puntare alla distruzione totale del nemico. In un luogo e in un tempo dov’è quasi impossibile restare neutrali e/o imparziali, si tratta certo di una posizione coraggiosa e anticonformista, ma necessaria.
Due giorni dopo il massacro del 7 ottobre Standing Together aveva per esempio lanciato una petizione, firmata da migliaia di persone, che chiedeva al governo israeliano di non fare ritorsioni armate ma di cercare il dialogo con Hamas, istanza che perfino la sinistra in parlamento aveva attaccato. Quando si guarda a un altro Paese dall’esterno spesso si preferisce ignorare un fatto palese ma scomodo: che dietro i governi ci sono società complesse e che queste società spesso non si sentono rappresentate dai loro governi, nemmeno da quelli democraticamente eletti. Nel corso della sua durata un governo può staccarsi dalla realtà della vita vissuta dai suoi cittadini. Per questo è pericoloso e sbagliato giudicare un popolo solo sulla base delle scelte di un tale o un tal altro governo.
C’è un videogioco, lanciato da poco sul mercato, che contiene un messaggio simile. Si chiama Indika, ed è stato sviluppato da un gruppo di creatori russi. Il gioco, che narra la storia di una suora che viene espulsa dal convento, contiene un forte elemento di critica nei confronti della chiesa ortodossa, usata dalla propaganda russa per il reclutamento di soldati nella guerra contro l’Ucraina. Poiché Indika porta i giocatori a mettere in discussione il concetto di autorità, i suoi creatori per completarlo sono dovuti scappare in Kazakistan e ora rischiano fino a 20 anni di carcere. Ciò dimostra quanto potente sia il pensiero critico e indipendente. Per questo è importante che la politica nasca anche dal basso, andando a correggere gli errori di chi sta in alto.