Ogni mattina, con uno sguardo misto di speranza e delusione anticipata, apro il giornale, lo sfoglio (o lo scorro, se si tratta della versione online) e il più delle volte lo richiudo per paura che, se solo continuassi a leggere, la mia giornata verrebbe invasa e rovinata dalle brutte notizie. Mi fermo e mi rendo conto che la negatività non deriva da ciò che leggo, ma da ciò che non leggo. L’essere umano per natura spera e si illude e da lì ne deriva una buona parte della sua sofferenza. Un attimo prima di aprire il giornale spero di leggere che qualcosa è cambiato, che qualcuno ha aperto gli occhi e ha capito che così non si può andare avanti. Sono poche le volte in cui, richiudendo il giornale, mi sento soddisfatta o perlomeno parzialmente in sintonia con la miriade di parole improntate su quei fogli, ma una di queste rare esperienze di appagamento da lettura di giornale è avvenuta martedì scorso.
Leggendo l’articolo del prof. Soldini ho visto una possibilità di distogliere gli occhi della società dalla monotona frase “i giovani non sono mai contenti” oppure “non è più la gioventù di una volta”. Io sono una studentessa al termine del percorso di scuola superiore e le assicuro che gli anni di scuola sono stati l’inizio e al tempo stesso la fine di un’esistenza. Come citato nella poesia scritta dal ragazzo, quelle quattro mura diventano in poco tempo il luogo in cui si trascorrono la maggior parte delle ore di una giornata. Ti rendi conto che, nel momento in cui varchi la soglia di quello che dovrebbe essere un luogo volto alla nostra formazione, invece di sentirti a casa ti senti spaesato. Diventi un numero, le tue assenze, i tuoi ritardi e le insufficienze. Perdi il diritto di avere una giornata no, di essere stanco, di essere triste. Tu, dentro quelle quattro mura devi essere impassibile. Impassibile alle prese in giro dei compagni, ai commenti sgradevoli da parte dei professori, alle tue stesse emozioni. E così trascorri i tuoi giorni, alzandoti la mattina e convincendoti che ciò che fai lo fai per te stesso, che se studi è per raggiungere i tuoi sogni. Poi arriva un giorno, nel bel mezzo del percorso liceale ti accorgi che ciò che ti è stato spiegato l’anno prima non lo ricordi più, che devi essere bravo, che sei i tuoi 3 a matematica e i tuoi 5.5 in condotta e ti convinci di ciò, ma una voce interiore, confusa e spaesata, ti dice che qualcosa non funziona, che qualcosa si è rotto. Ma tu non capisci. La scuola dovrebbe essere un luogo di apprendimento in cui sentirsi valorizzati, giusto? Purtroppo, in molti casi non è così. Ne sono la prova, come spesso si legge, l’assenteismo in aumento, le manifestazioni di disagio che portano ad attacchi di panico, autolesionismo o addirittura a bruciarsi il futuro mostrando il calcio di una pistola a una docente che inconsciamente, con la sua insufficienza, ha minato il terreno già fragile di un giovane adolescente. Tutto questo rumore, talmente silenzioso da essere ignorato, è un grido di aiuto che le nuove generazioni stanno lanciando al mondo che le circonda. Siamo fragili. Dietro alla corazza del bullo o di un sorriso si nasconde un fiore, appena cresciuto, impaurito dalla bufera che giorno dopo giorno si trova a dover affrontare.
Ed è per questo che è importante prendere in considerazione queste grida, agire finché si è ancora in tempo, rendersi umani davanti a coloro che prenderanno il posto degli adulti di adesso. Bisogna formare una generazione forte, felice, diversa. Solo così si potrà ancora intravedere la piccola luce della speranza.