La recente querelle attorno alla nomina di un paio di procuratori pubblici è stata l’occasione per una parte della politica di denunciare il cosiddetto fenomeno della “spartizione del potere” a opera dei partiti. Senza alcun guizzo di originalità, la denuncia è stata poi accompagnata dalle solite rappresentazioni di questa pratica, oggetto della satira politica dai tempi di Noè: il lauto banchetto delle cariche, la spartizione della torta da parte della casta, il magna magna dei soliti noti, le mani basse sullo Stato e chi più ne ha più ne metta.
Dato per assodato che quello che viene chiamato “potere”, ovvero le cariche pubbliche e istituzionali, in qualche modo debba comunque finire per essere attribuito a delle persone, credo possa essere utile per un momento soffermarsi sul termine “spartizione”, per capire se davvero l’attribuzione necessaria delle varie cariche attraverso questo sistema sia quella iattura che alcuni paventano.
Un concetto, quello della “spartizione”, connotato molto negativamente proprio per il sostantivo utilizzato, ma che, proprio se applicato al potere, non può non richiamare quelli di divisione e di separazione, ovvero uno dei capisaldi, questa volta positivo, della concezione largamente accettata dello Stato moderno. Che cos’è infatti il sacro principio della separazione dei poteri se non l’idea secondo la quale il potere è bene che sia chiaramente diviso, o spartito, tra chi fa le leggi, il legislativo, chi le deve applicare, l’esecutivo, e chi deve controllare che la loro applicazione sia loro fedele, i tribunali, per evitare derive autoritarie? Un principio, oggi caro a tutte le democrazie, che riporta a Tocqueville, il quale lo descrisse a partire dalla giusta preoccupazione di trovare un antidoto alla tirannide, ai pericoli del potere concentrato in una o in poche mani. Ma vi è di più. La divisione del potere richiama anche il sistema proporzionale dell’art. 149 della Costituzione federale, che rimane il punto di riferimento centrale per l’attribuzione delle cariche politiche nel nostro Paese, il quale riconosce alle diverse visioni offerte dai partiti una quota della rappresentanza all’interno delle istituzioni proporzionale ai risultati elettorali ottenuti. Lungi dall’essere una devianza, la divisione del potere è quindi endemicamente connaturata al nostro sistema politico, ne è una parte essenziale.
Mi si dirà che questo vale per le cariche politiche e non per i giudici e che le due cose non sono paragonabili. Pur non negando le differenze, mi permetto di dissentire.
Cominciamo dalle differenze. Il processo di nomina di un giudice parte da un bando di concorso, il quale elenca dei precisi requisiti che candidate e candidati devono avere; requisiti che, se mancano, anche in parte, portano all’eliminazione diretta della candidatura. L’esistenza di un bando di concorso ha anche per effetto che sia la singola persona a decidere in tutta autonomia se parteciparvi o meno, senza avere di base l’avallo di nessuno. Infine e soprattutto, i giudici, quando decidono, applicano al meglio la legge e non entrano nella logica di schieramento tipica del confronto tra i partiti (non ho mai conosciuto verdetti giudiziari emessi su indicazione di qualche organo di partito).
Per le cariche politiche le cose sono invece diverse. Come è noto, gli unici requisiti personali richiesti a candidate e candidati sono la maggiore età e la nazionalità svizzera, per quel che riguarda la partecipazione alla corsa elettorale è sempre necessario avere un nullaosta da parte di altre persone, siano essi i proponenti della lista, un comitato politico o un congresso, e soprattutto molto spesso la posizione assunta dal singolo corrisponde a quella decisa dal gruppo, proprio perché alla fine la dinamica del confronto è quella dello schieramento.
Comunque la si voglia vedere, per i primi si parte e ci si affida alle competenze personali, per i secondi si parte da altri presupposti.
A fronte di queste giuste differenze e passando invece alle cose in comune, non credo vi sia alcuna ragione logica per sostenere che quello che è saggio per le cariche politiche, in termini di pesi e contrappesi che evitino la concentrazione del potere, non lo sia anche per il potere giudiziario. Mantenendo quindi sempre il primato della competenza personale, io sono tra quelli che sostengono che sia molto importante che a questo primo principio si affianchi quello della presenza tra i giudici di persone che abbiano visioni del mondo diverse tra loro. E ciò affinché la diversità di visione politica possa essere presente per esempio quando vi sono decisioni delicate da prendere all’interno di un collegio giudicante, rispettivamente quando vi sono impostazioni generali dei tribunali o del Ministero pubblico da dirimere (quali casistiche sono prioritarie, dove è bene concentrare le risorse disponibili ecc.).
Non credo quindi che vi siano sistemi per la nomina dei giudici da cambiare o da rivoluzionare, ma solo procedure già esistenti e conosciute da usare bene, in maniera rigorosa e trasparente. Cosa non scontata e sulla quale è sempre bene vegliare, perché se i partiti ogni tanto inciampano sulle nomine, non è perché il sistema non funziona, ma perché nella specifica occasione il necessario rigore è venuto meno. E quando questo succede è bene che ciò susciti pubblico dibattito, che chi è stato “leggero” venga richiamato a fare questo lavoro seriamente in futuro, ma senza prendere il vicolo cieco di immaginare procedure alternative miracolose e perfette, che non esistono e che non potranno mai sostituire una valutazione delle candidature ben fatta, e senza rimettere in discussione il principio della divisione del potere, che è piuttosto un valore, non un problema.