Zurigo, lunedì di Pasqua del 1917. L’Europa è in guerra dall’agosto del 1914. In quel giorno festivo, alcuni cittadini assistono al passaggio di una stravagante comitiva, lungo un itinerario che dal ristorante “Zähringerhof” porta alla stazione principale. Sono uomini e donne, circa trenta, appesantiti da valigie, ceste e pastrani di varia foggia: sono immigrati russi, esuli e fuorusciti, e sono guidati dal bolscevico Wladimir Il’ič Ul’janov detto Lenin. Il rivoluzionario russo, morto cento anni fa, il 21 gennaio, soggiornò in varie occasioni anche nel nostro Paese, senza tuttavia dare troppo nell’occhio. Temendo l’arresto e l’espulsione, preferì dedicarsi allo studio e all’organizzazione della componente bolscevica attiva tra i suoi connazionali in esilio. Il gruppo si appresta a rientrare in Russia attraverso la Germania, la Svezia e il Granducato di Finlandia. Destinazione finale: Pietrogrado. Quel lungo e disagiato viaggio, propiziato dai servizi segreti tedeschi, ha cambiato, come sappiamo, il corso della storia, e non soltanto quello dell’immensa Russia. Oggetto di ricostruzioni varie, spesso fantasiose, quel rientro nella “carrozza piombata” è diventato leggenda, mito fondativo del comunismo sovietico.
Il giovane e ribelle Ul’janov era giunto a Ginevra già nel 1895 per sottrarsi alla cattura ordinata dalla polizia zarista. In Svizzera soggiornerà più volte, nella città di Calvino come anche a Berna e Zurigo, per una durata complessiva di oltre sei anni. Lo storico Emilio Gentile ha immaginato un possibile incontro tra Lenin e Mussolini in qualche fumosa locanda ginevrina, tra il 1902 e il 1904: eventualità che si sarebbe anche potuta verificare, vista la presenza in città in quel giro d’anni dell’agitatore socialista romagnolo.
Willi Gautschi, che dei soggiorni svizzeri di Lenin si è occupato in un ampio saggio pubblicato nel 1973 e quasi sempre ignorato dalla storiografia internazionale (Lenin als Emigrant in der Schweiz), sostiene che l’influenza del bolscevico sul movimento operaio e sindacale elvetico fu trascurabile. Assorbito dalle furiose dispute interne che allora laceravano la colonia russa, molto numerosa e litigiosa, Lenin profuse le sue energie intellettuali nell’organizzazione del partito rivoluzionario. Frutto di quelle riflessioni fu un saggio ritenuto fondamentale nel processo formativo di Lenin, il Che fare? pubblicato nel 1902, pugnace piattaforma ideologica del bolscevismo. A giudizio dello slavista Vittorio Strada, che nel 1971 curò un’edizione commentata per l’editore Einaudi, nessun altro libro politico del Novecento aveva «aperto un così vasto e durevole cammino nella storia, trasformando le proprie costruzioni teoriche in azione e in realtà tuttora ricche d’avvenire».
A differenza di Mussolini, più volte incarcerato ed espulso da un cantone all’altro, Lenin visse appartato e senza creare fastidi alle autorità di polizia elvetica. Gautschi, nella monografia citata, parla di un comportamento improntato all’estrema correttezza: «Mai qui visse sotto falso nome, come invece gli accadde di fare in Germania e in Inghilterra, ma si fece sempre registrare presso il controllo abitanti come Wladimir Ul’janov».
Anche il suo atto più politico e radicale nel nostro Paese, ossia la partecipazione alle conferenze segrete di Zimmerwald (1915) e Kiental (1916) indette dal socialdemocratico Robert Grimm per rianimare lo schieramento contrario alla guerra, non ebbe conseguenze d’ordine pubblico. In quelle riunioni Lenin propose al prostrato movimento operaio europeo di trasformare la guerra imperialista in guerra civile, ma rimase in minoranza. «Non siamo pacifisti», scrisse poi nella lettera tramite la quale si accomiatava dagli operai svizzeri: «Siamo avversari della guerra imperialista per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell’interesse del socialismo».
Nel 1917 la rivoluzione di febbraio con la successiva formazione di un governo capeggiato da Aleksandr Kerenskij ebbe l’effetto di un lampo al magnesio, e non solo per la comunità russa in esilio. Anche la Germania comprese che l’occasione era propizia per chiudere il fronte orientale, e riversare così le proprie truppe nel teatro bellico francese. Lenin avrebbe potuto incrementare il caos e sparigliare le carte: di qui l’idea di riportarlo in patria in un convoglio sorvegliato, senza immaginare che quel trasferimento avrebbe innescato una reazione a catena inusitata.
Ci si può chiedere in che misura Lenin s’interessò alle faccende elvetiche, alla storia del Paese, alla capacità di mobilitazione del movimento operaio nei vari cantoni. Dalle testimonianze raccolte dai compagni socialisti, tra cui il futuro Consigliere federale Ernst Nobs, sembra che ammirasse l’architettura costituzionale della Svizzera e le soluzioni adottate per favorire la coesistenza pacifica tra le stirpi e i gruppi linguistici. Conosceva anche il percorso del movimento liberale (“Freisinn”) e le azioni di forza che lo avevano condotto al potere: «Ancora nel 1890, dunque molto dopo il 1848, il partito liberale ha preso le armi, assassinato un Consigliere di Stato [il cattolico-conservatore Luigi Rossi, ndr] e rovesciato in Ticino il governo conservatore. Politici liberali e futuri Consiglieri federali hanno assunto le difese degli imputati e riconosciuto loro il diritto alla rivoluzione. I vostri tribunali hanno assolto qui, nel municipio di Zurigo, i rivoluzionari ticinesi liberali. Cose simili possono capitare solo in Svizzera».
L’eco delle iniziative leniniane rimase comunque confinato nella ristretta cerchia dei seguaci. Lenin non voleva correre rischi, l’arresto o l’espulsione. Dopo i raduni di Zimmerwald e Kiental, ove aveva cercato di provocare la spaccatura tra i socialpatrioti (maggioritari) e la sinistra radicale, il suo interesse per il Paese che l’aveva accolto venne meno. Altre erano ora le urgenze che eccitavano la sua mente. La moglie Nadežda Krupskaja avrebbe poi smentito i militanti che avevano idealizzato il ruolo del coniuge nell’orientare la strategia dei socialisti svizzeri, sospingendoli magari nelle braccia del bolscevismo: «In Svizzera non esisteva una forte classe operaia, più che altro è un Paese con molte stazioni termali, un piccolo Stato che si nutre delle briciole che le grandi potenze capitalistiche lasciano cadere dal tavolo…».