Questa frase – pronunciata da un ex generale eroe di guerra, già direttore dei servizi segreti e ministro del governo israeliano – in sole sette parole mette in evidenza ciò che ha alimentato l’odio esploso con l’atto terroristico di Hamas e nel contempo fornisce a Israele e alla comunità internazionale la via da seguire per uscire da una grave crisi – in primo luogo umanitaria – venutasi a creare con la forzatura della iniqua spartizione del territorio palestinese imposta dalle lobby sioniste e dal governo a stelle e strisce.
La speranza, per quei circa 1,7 milioni di rifugiati palestinesi che abitano Gaza, figli o nipoti dei 700’000 palestinesi che furono costretti nel 1948 ad abbandonare i loro beni, case e terre a seguito dell’insediamento dello Stato d’Israele e della guerra che ne conseguì, è sinora sempre stata disattesa. Iniziando dalla risoluzione 194 dell’Onu, ad oggi ignorata da Israele, con cui si sanciva, tra l’altro, la smilitarizzazione e il controllo delle Nazioni Unite su Gerusalemme e il diritto dei rifugiati di fare ritorno alle loro case o di essere compensati per le perdite subite. Una prima beffa a cui fecero seguito altre sanzioni dell’Onu ignorate da Israele e servite solamente a minare ulteriormente le speranze dei palestinesi.
Neppure i numerosi accordi di pace (Camp David ’78, Madrid ’91, Oslo ’93, Camp David ’00, Ginevra ’03, Annapolis ’07, Washington ’10), nonostante le strette di mano e le promesse in diretta Tv, hanno avuto ripercussioni positive. Nel 2012, 138 Stati membri delle Nazioni Unite hanno riconosciuto lo Stato della Palestina, accettando di fatto uno Stato composto da una prigione a cielo aperto chiamata Gaza, da 227 aree isolate disseminate in Cisgiordania – dove coloni e militari la fanno da padroni con un regime di apartheid – e da Gerusalemme Est, occupata dagli israeliani dal 1967. In questa situazione di vile indifferenza internazionale, a cui va aggiunta l’impotenza dell’Autorità nazionale palestinese, cosa può fare un rifugiato di Gaza desideroso di dare ai propri figli un futuro, se non affidarsi ad Hamas che promette di “occuparsi” del nemico? Nella disperazione è naturale aggrapparsi a qualsiasi filo di speranza.
Israele ha – o comunque riceverà – sufficiente potenza di fuoco per distruggere Hamas, lasciando sul suo cammino morte, distruzione e tanta disperazione pronta a trasformarsi in odio. È prevedibile che, con l’appoggio di molti dei due miliardi di musulmani della terra, nascerà Hamas 2.0 che sarà molto più potente dell’originale. Le armi continueranno a seminare morte e distruzione per la gioia di chi le vende, e l’Occidente continuerà a versare un miliardo di dollari all’anno per sfamare e scolarizzare i profughi palestinesi.
In alternativa si potrebbe dare ai palestinesi quella speranza di cui hanno tanto bisogno, iniziando con il rimpatrio dei 700’000 coloni israeliani che risiedono illegalmente nei territori occupati. Israele nel 1948 ha dimostrato di poter dislocare 700’000 persone in poco tempo, dunque l’operazione è fattibile. Unicamente tornando ai confini del 1967 e ritirando i coloni, come richiesto dall’Onu (e dalla Svizzera), si otterranno le condizioni per la realizzazione della soluzione a due Stati che sta alla base di ogni ipotesi di pace tra i due contendenti. Ma succederà solamente quando il valore attribuito alla dignità umana supererà quello del triste mercato di materiale bellico.