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Riflessioni patriottiche

Si sta avvicinando il 1° agosto, giorno dedicato – così il sito della Confederazione – alla commemorazione del Patto federale del 1291 in cui i Cantoni di Uri, Svitto e Untervaldo si promisero solennemente reciproca assistenza in caso di minaccia esterna. Un patto di difesa quindi. Oggi, secondo la Costituzione, un’alleanza al fine di rafforzare la libertà e la democrazia, l’indipendenza e la pace, in uno spirito di solidarietà e di apertura al mondo. Un’alleanza conscia che la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri.

Sono cresciuta nella certezza di appartenere a questo popolo – anche se di famiglia di condizioni modeste, ho potuto studiare e scegliere liberamente una professione che fino a non molto tempo prima era riservata ai rampolli di famiglie di ceto elevato. Ho potuto crescere nella certezza che la mia famiglia appartenesse a questo Paese, che al di là delle fortune e sfortune della vita, delle mie opinioni, del mio patrimonio, vi avrei trovato uno spazio.

Ma questa visione si è dimostrata un po’ naïf. Ho dovuto scoprire come le promesse valgano solo per alcuni. Mi sono per esempio dovuta rendere conto del fatto che la democrazia diretta, basata sul suffragio universale, così universale non lo è mai stata – il diritto di voto e di eleggibilità dipendeva inizialmente dal ceto (perdeva per esempio il diritto chi aveva debiti) e fino a una cinquantina d’anni fa dal fatto di essere uomo. Fino ai giorni nostri in cui un quarto della popolazione, anche se ha qui il centro della propria vita, è escluso dalla partecipazione democratica in un Paese fiero di questa sua tradizione. Chi desidera poter partecipare a tutti gli effetti e acquisire un diritto certo di esserci in questo Paese, deve sottoporsi a procedure lunghe, estenuanti e anche degradanti e discriminatorie. Oltre a dover disporre del permesso C, che già di per sé dipende in parte da provenienza geografica e situazione economica, deve dimostrare di non avere mai sgarrato, di guadagnare bene, di essere sano (ovvero: non sia mai che abbia bisogno di aiuto), di non essere troppo mobile, di essersi conformato al modo di essere svizzeri. Personalmente non saprei come definire “l’essere svizzeri” in un Paese con quattro lingue nazionali e tradizioni che variano da Cantone a Cantone e da Comune a Comune e a dipendenza dei propri interessi, conoscenze e valori acquisiti almeno in parte in un mondo globalizzato come lo è internet. Seriamente: chi di noi saprebbe veramente definire “lo svizzero”? Quanti di noi riuscirebbero a passare senza intoppi gli esami – sulla persona e sulle conoscenze – a cui vengono sottoposti i “naturalizzandi”?

Ecco perché reputo che l’Iniziativa popolare federale “Per un diritto di cittadinanza moderno (Iniziativa per la democrazia)” sia profondamente svizzera: chiede di riconoscere tutti quelli e quelle che sono a casa qui, che ci vivono legalmente da 5 anni, come membri della società a pieno titolo e con pari diritti – perché quello che ci unisce è il luogo in cui viviamo. E in questo luogo nessuno può essere discriminato, in particolare a causa dell’origine, della razza, del sesso, dell’età, della lingua, della posizione sociale, del modo di vita, delle convinzioni religiose, filosofiche o politiche, e di menomazioni fisiche, mentali o psichiche. E in questo luogo, noi che ci abitiamo, vogliamo vivere la nostra molteplicità nell’unità, nella considerazione e nel rispetto reciproci.