Tre storie di ordinaria umanità dal Ticino al Perù, al Nicaragua, all’Africa alla ricerca di nuove equazioni di vita tra chi ha tanto e chi ha poco
A volte si creano ponti tra culture, mondi molto diversi, che connettono persone, realtà tanto distanti eppure tanto vicine. Le storie di Marco Ventriglia in Nicaragua, di Florence Labati in Costa d’Avorio, di Marco Andreoli in Perù ci parlano di scelte, di promesse, di impegno per il prossimo, di chi ha tanto e chi non ha nulla, di nuove equazioni di vita. Natale è famiglia. Ma quale famiglia? C’è chi allarga le braccia, crea nuovi ponti, intreccia nuovi destini, nuove avventure di vita e trova nuove famiglie altrove. Ve lo raccontiamo.
Chi l’avrebbe mai detto che l’apicoltura ticinese avrebbe risollevato diverse famiglie rurali della Costa d’Avorio, stravolta da decenni di scontri e guerre civili, da povertà, non da ultimo, messa in ginocchio dai cambiamenti climatici. Là dove spopolavano piante di cacao e caffè, ora ci sono sempre più coltivazioni di anacardo. Sembra che le api siano pazze per lo sciroppo estratto dalla noce di acagiù. Ebbene questa è una storia di artisti del miele, di pompe d’acqua, di flussi migratori da invertire, di promesse… è ciò che lega Florence Labati a questa parte d’Africa. Lei le promesse le ha sempre mantenute, soprattutto se fatte a un bambino.
Così ci racconta davanti a un tè fumante, l’ingegnere informatico di Rancate, di recente rientrata da Abidjan. Era lì con una delegazione dell’Ong Acqua e miele, attiva da 21 anni in Costa d’Avorio (coordinata e fondata da Egidio Cescato, per supervisionare progetti nel settore apistico e nel campo idrico, per insegnare project management a chi già costruisce arnie, produce miele e lo vende, in futuro magari anche all’estero, così da avere entrate extra per supportare le famiglie nelle zone rurali più povere. Ma c’è di più. Era l’occasione per gettare le fondamenta per nuovi importanti progetti, dalla riforestazione alla costruzione di 90 latrine che sarà tutta femminile. Sorridente ed estroversa, ci mostra foto di viaggio. La vediamo armeggiare a una centralina, che fa funzionare una stazione di pompaggio, alimentata da pannelli solari. Un sistema che estrae dalle profondità della terra 23mila litri d’acqua al giorno. Il computer si è rotto. «Era un bel problema. Ho contattato la ditta tedesca che ha costruito la pompa. C’è voluto del tempo ma poi abbiamo capito dove era l’intoppo e abbiamo potuto ripristinarla», spiega. Per tutto il tempo un ragazzino le è rimasto accanto, lì sotto il sole cocente a 34 gradi. «Mi fissava guardingo armeggiare col computer. Poi è scomparso, riapparendo con delle caramelle, che mi ha offerto. La sua casa distava almeno mezz’ora di cammino», racconta. Mi mostra la foto del giovane, avrà 10 anni, il suo sguardo è pulito, curioso, intelligente. «Mi ha detto che da grande vuole fare il lavoro che faccio io. Era affascinato dal computer». Ripristinare l’acqua era vitale per il villaggio. La donna bianca col computer ha compiuto il miracolo.
Madre di due figli, Florence Labati (58 anni) ha implementato sistemi gestionali per multinazionali in tutto il mondo. Giappone, Cina, Singapore, India, Cile, Argentina, Brasile per poi approdare in Ticino, dove lavora per il settore bancario e tiene corsi di master in project management alla Franklin University e alla Supsi. Competenze che ha portato in valigia in Costa d’Avorio, dove negli anni la Ong ticinese ha formato un migliaio di giovani nelle tecniche di apicoltura, creando poi un’associazione che li riunisce, allo scopo di raccogliere dati, relazionarsi con gli agricoltori, promuovere corsi, salvaguardare i fiori adatti all’apicoltura e relazionarsi con altre associazioni.
Il bello è che tanti apicoltori sono donne, il pilastro delle comunità da emancipare: le donne si alzano alle 6 del mattino, fanno chilometri a piedi per prendere l’acqua, cucinano, crescono numerosi figli. «Sanno che gli uomini le sfruttano e cercano di adattarsi al meglio. Non parlano molto, sono pratiche, diffidenti finché non capiscono le tue intenzioni, ma pronte a imparare. Le campagne contro le gravidanze precoci hanno permesso di ridurle del 30% permettendo alle donne di fare i corsi, diventare apicoltrici e quindi contribuire sempre di più all’economia domestica», spiega.
Al corso di projet management tenuto da Labati ad Abidjan c’erano anche diverse signore. «Molte seguivano il corso con un neonato in spalla. Non avevano i mezzi per avere un computer, a volte anche uno smartphone, ma erano pronte a mettersi in gioco per migliorare la situazione della loro famiglia». Uno dei nuovi progetti, si chiama ‘Wash’, sarà gestito e guidato interamente da donne, selezionate dal comitato. «Dovranno garantire manutenzione e pulizia delle nuove 90 latrine che l’Ong costruirà, promuovendo comportamenti igienicamente corretti, facendo istruzione sanitaria di base, gestendo la potabilizzazione dell’acqua. Due grossi temi saranno sul tavolo: prevenzione per gravidanze precoci e mutilazioni genitali».
Tanta carne al fuoco dunque per l’ingegnere informatico, che prevede di tornare in Costa d’Avorio già ad aprile. «Sono donna, sono madre, grazie ai miei genitori, che erano ambulanti nella banlieue parigina dove vendevano prodotti alimentari emiliani, ho potuto studiare e fare un lavoro che amo. Ho tanta passione e vitalità e voglio dare qualcosa a chi ha meno, soprattutto alle donne. Perché devono poter restare nel loro Paese e vivere dignitosamente». Serve anche pazienza per costruire in un contesto dove tradizioni e credenze hanno il loro ruolo. Un esempio? Quando si trattava di sistemare il tubo della cisterna da 120 litri d’acqua, nessuno voleva entrare nella struttura. «Avevano paura degli spiriti, allora ci sono andata io», aggiunge.
Un altro progetto che le sta a cuore è la riforestazione. «Continueremo a piantare centinaia di alberi di ogni tipo (tra cui fromager, palme oleifere e cocchi) per lottare contro la desertificazione migliorando il clima, creando una nuova fonte alimentare e un nuovo vettore pollinifero per le api. Investiremo anche in un programma sperimentale per la produzione di carbonella per la cottura dei cibi, che verrà prodotta con scarti vegetali senza ricorrere al taglio degli alberi». Tornerà anche per una promessa. «Non mi commuovo facilmente, ma ho promesso a quel bambino della cisterna affascinato dal mio computer che tornerò a trovarlo». Tornerà per lui e per tanti altri.
Maniche corte, ventilatore a paletta, a Somoto fa un gran caldo in questi giorni. È in questa tranquilla cittadina nicaraguense, a pochi passi dal confine con l’Honduras, che troviamo il luganese Marco Ventriglia (34 anni). L’economista ambientale sta nel dipartimento di Madriz, uno dei più poveri del Paese. Non è in vacanza. Da anni aiuta (in collaborazione con la cooperativa agricola Ucans) famiglie di agricoltori a garantirsi l’approvvigionamento alimentare, li sostiene a ottimizzare la produzione agricola e migliorare la commercializzazione dei loro prodotti. «Il Nicaragua è ormai la mia seconda casa. Sento di voler dare tutto ciò che posso a questo Paese, alle persone, non cambierò il mondo, ma avrò dato il mio contributo». Questo è lo spirito che anima il cooperante di Comundo.
Sono ormai lontani gli anni in cui a Lugano lavorava in banca, studiava alla Supsi economia aziendale. La sua prima esperienza umanitaria l’ha fatta in Africa. Allora aveva 24 anni. Capisce presto che l’economia è una chiave per lavorare nell’ambito umanitario. «Viaggiare è sempre stata la mia passione, ma volevo uscire dal cliché del globetrotter col sacco in spalla, volevo vivere i Paesi che visitavo». Nel 2016 parte per il Nicaragua, lavora un anno per un’organizzazione ambientale. Comprende che per essere davvero utile deve formarsi meglio. Nel 2017 si iscrive in Inghilterra ("In Svizzera non c’era nulla") a un master in economia ambientale, con l’obiettivo di ampliare le proprie conoscenze. «In Nicaragua avevo incontrato una ragazza, ora è mia moglie», precisa. Dal 2019, per tre anni, si dedica come cooperante di Comundo, al sostegno dei giovani contadini nicaraguensi. «Tanti giovani emigrano verso gli Stati Uniti per mancanza di prospettive, sperando, a volte anche in modo ingenuo, in una vita migliore. Poi c’è il cambiamento climatico che rende la vita molto difficile agli agricoltori. Gli uragani hanno distrutto interi raccolti. Gli inverni sono troppo secchi: la sicurezza alimentare non è più garantita». Per far fronte alle difficoltà, i contadini della regione si sono organizzati in cooperative agricole sotto il cappello di Ucans (Unione delle cooperative agricole nel nord della Segovia). Le sfide sono tante: commercializzare i prodotti con prezzi più giusti; aumentare la produzione agricola senza danneggiare il suolo; evitare l’emigrazione massiva di giovani; emancipare le donne in ambito agricolo.
Il luganese ha aiutato decine di agricoltori a commercializzare i loro prodotti. Come il 65enne Don Luis Alfredo Olivera della comunità de El Naranjo che ha passato la sua vita a coltivare mais e fagioli per sfamare i suoi sei figli. Oggi loro sono sposati mentre lui e la moglie non hanno diritto alla pensione. «Vive al livello di sussistenza e non ha potuto pagare i contributi assicurativi che gli avrebbero facilitato la vita in età avanzata». Il contributo dell’economista è molto concreto. «Molti stentano a leggere e scrivere, fanno gli stessi gesti da generazioni, manca una visione imprenditoriale, insegno loro semplici strumenti di contabilità. In questo modo, gli agricoltori come Don Alfredo hanno una visione d’insieme delle loro entrate e delle loro spese e possono generare maggiori entrate grazie a una migliore pianificazione», precisa.
Oltre alla moglie Fabiola e al figlio Nilo di quasi 5 anni, c’è una fiamma che lo tiene in Nicaragua. «Voglio aiutare la gente di qui. In questo Paese ho riscoperto il valore delle cose semplici, nuove equazioni di vita. Meno si ha, più si è contenti. Non c’è la frenesia di avere, si vive con quello che c’è senza desideri irrealizzabili e frustrazioni». Certamente non gli manca la folle corsa occidentale ai regali natalizi, forse apprezza di più la sobrietà negli addobbi, imposta quest’anno dalla crisi energetica. «Si vive alla giornata, contenti di arrivare a fine mese dignitosamente e senza troppi grattacapi». Il Natale, dice, sarà un momento in famiglia. «Avremo cibo diverso, non c’è la neve, ma il calore della famiglia è la cosa più preziosa».
Da settembre, la sua nuova sfida è tra gli alberi del Nicaragua. Riforestare seguendo i principi dell’economia circolare. Il cooperante di Comundo collabora con Aprodein (Asociación de Profesionales para el Desarrollo Integral del Nicaragua). Identificano gli agricoltori che hanno accesso a terreni non utilizzati e ne promuovono la valorizzazione attraverso piantagioni forestali. «Le famiglie vengono indennizzate e formate a gestire le piantagioni. La legna di scarto viene trasformata in carbone vegetale e in fertilizzante organico, una parte va a nutrire le stesse foreste, una parte va commercializzata. Li aiuto a elaborare una strategia di marketing», spiega. L’associazione si finanzia tramite i crediti per l’anidride carbonica. «Ogni area riforestata, significa anidride carbonica riassorbita. Questo ha un valore. Molte aziende preferiscono acquistare questi crediti che innovare e rendere più ecologici i processi interni». Dal 1950 a oggi, il Paese ha perso più del 50% della sua superficie boschiva. Le foreste giocano un ruolo chiave nella regolazione della falda idrica e nell’erosione del suolo, ed è un’opportunità economica per i locali.
A metà gennaio Marco Andreoli, 37 anni, partirà per il Perù dove la situazione è tesa, tra rimpasti di governo, un ex presidente arrestato con l’accusa di tentato colpo di Stato, proteste, scioperi e purtroppo anche morti. Malgrado la situazione non facile, il bellinzonese andrà sulle Ande, nella regione di Cusco, dove si occuperà per tre anni, come cooperante di Comundo, di sensibilizzazione ambientale in una ventina di scuole, in collaborazione con l’organizzazione locale Fe y Alegría 44. «Aiuterò docenti, allievi (e di conseguenza anche genitori) a sviluppare una cultura della serra, riattiveremo lo sviluppo degli orti biologici comunitari scolastici sia per tutelare la salute nella regione sia per promuovere, con contenuti educativi, la consapevolezza di quanto sia importante un ambiente di vita salutare e uno stile di vita rispettoso dell’ambiente. Faremo sensibilizzazione in particolare sui legami tra inquinamento, malattie e sicurezza alimentare». Il lavoro del geografo coinvolgerà circa 180 insegnanti e 2’900 alunni fino ai 17 anni.
Per armeggiare tra serre e piantine, in altitudine, ci vuole un certo pollice verde. «Mi piace coltivare ma non sono un tecnico agronomo. L’obiettivo non è tanto quello di calare progetti dall’alto o d’impartire lezioni ma piuttosto quello di valorizzare le conoscenze esistenti favorendo dei processi di coproduzione di sapere che coinvolgano docenti e allievi. Nel caso specifico potranno essere gli agricoltori stessi a trasmettere le proprie competenze in relazione alle tecniche di coltivazione all’interno degli istituti scolastici».
La situazione politica è tesa, ma Comundo monitora i nuovi scenari ed elargisce misure di sicurezza e prevenzione ai cooperanti. «Ritengo doveroso affrontare con positività la prospettiva di operare in un contesto problematico. Non vedo altro verso per farlo. Pessimismo e pensieri negativi spesso offuscano la mente e portano a maturare scelte con conseguenze indesiderate», precisa il bellinzonese.
Amore e disamore per la Pachamama
In Perù, il legame con la Madre Terra (la Pachamama) è sacro e ritualizzato. Quando i locali mangiano e bevono, spesso ritornano una piccola parte del loro cibo alla Terra, in segno di ringraziamento, alla ricerca di una sorta di equilibrio tra dare e prendere. «È una visione del mondo e della vita che affonda le proprie origini nella storia più remota delle popolazioni indigene dell’altipiano andino. Lo trovo affascinante. Al tempo stesso ci sono grossi paradossi e problemi ambientali legati a un cattivo uso del suolo, alla deforestazione, a un uso inadeguato delle risorse».
Soprattutto nella provincia di Quispicanchis (nella regione di Cusco) dove si vive di agricoltura, allevamento, turismo e industria mineraria, manca una consapevolezza ambientale. Questo aggrava ancor di più la povertà. Qui quasi un quarto della popolazione è analfabeta. «Solo poche scuole della regione hanno acqua potabile, il che è spesso causa di malattie. Uno dei motivi è l’inquinamento dell’acqua dovuto all’estrazione mineraria illegale o alla deforestazione». Poi c’è un altro importante capitolo, lo smaltimento dei rifiuti: «La provincia produce ogni giorno circa 40 tonnellate di rifiuti, la maggior parte viene smaltita in modo improprio. Le conseguenze sono: inquinamento di aria, acqua e suolo». Tanti problemi, tanta carne al fuoco dunque per il geografo, che dopo anni d’insegnamento e un impiego al Dipartimento del territorio, ha deciso di fare un’esperienza d’interscambio professionale nel campo umanitario in un Paese instabile, ma sicuramente stimolante. «È un continente che mi intriga per le sue tradizioni, la sua lingua che ho imparato in un precedente viaggio di studio. Immergersi in una cultura differente aiuta anche a capire meglio chi siamo», spiega.
Un riequilibrio sociale tra Paesi
A motivare Andreoli in questa nuova avventura sulle Ande peruviane è la forte spinta a voler dare il proprio contributo a favore di un riequilibrio sociale, intellettuale nei processi di sviluppo tra Paesi più e meno avanzati: «Posso farlo portando conoscenze ed esperienza accumulate in Svizzera. Sono sicuro che sarà un’esperienza intensa e ricca di emozioni». In Perù lo attende una entusiasmante sfida scolastica per seminare nelle menti dei giovanissimi e dei loro insegnanti una coscienza ambientale che permetterà loro (e alle generazioni future) di difendere il bene più prezioso, la Pachamama.