Un partito unico rosso-verde, diretto da una copresidenza bicolore, e infine un’agenzia informativa comune (i canali sociali, ma anche la stampa): per la sinistra riformista è questa l’unica via possibile per risalire la china.
Una china che non è soltanto elettorale (perdita di voti e di seggi), benché anche questo aspetto meriti attenzione e autocritica. Ps e Verdi hanno infatti dapprima peccato di presunzione (ottenere due rappresentanti nel governo cantonale), e poi di insufficienza strategica. Hanno cioè evitato di agganciare le elezioni cantonali a quelle federali, abbandonando di fatto il seggio alla Camera alta: un obiettivo storico raggiunto da Marina Carobbio nel 2019, pur con uno scarto minimo sul diretto concorrente Filippo Lombardi. Un vero peccato che il socialismo ticinese abbia ceduto senza combattere questo importante avamposto nella Confederazione (mai era successo in precedenza). Rioccuparlo è ora una missione che pare impossibile. Anche perché il vento di destra ha ripreso a soffiare gagliardo, sia in Svizzera sia in molti Stati dell’Unione europea. L’umore conta, influenza e orienta scelte e comportamenti, una “Stimmung” che al momento non sorride alle sinistre.
Oltre i risvolti elettorali, c’è da considerare la questione culturale. Ovvero la riflessione intorno ai princìpi, alle linee-guida, alle basi ideologiche in un mondo che è sempre meno quello di ieri. Sappiamo quanto divergevano fino a qualche anno fa i programmi socialisti da quelli ambientalisti. Il socialismo ha alle spalle una storia plurisecolare; nelle nostre contrade mise radici nella seconda metà dell’Ottocento, sotto forma di casse di mutuo soccorso e di cooperative di consumo, per poi darsi organizzazioni più strutturate (partito, camera del lavoro, federazioni sindacali, case del popolo, stampa). La storia dei Verdi è invece molto più recente, risale agli anni Settanta come propaggine meridionale delle mobilitazioni che avevano investito le aree d’Oltralpe: proteste e marce contro le piazze d’armi, le centrali nucleari, le autostrade e gli sbarramenti idrici sul Reno.
Incontrarsi su un terreno comune, date queste premesse (le une incentrate sulla crescita, le ricadute del progresso, le conquiste sociali; le altre sulla tutela delle risorse naturali) non era facile e difatti il dialogo rimase a lungo allo stadio delle buone intenzioni. C’era sì chi iniziava a ragionare intorno ad un socialismo aperto all’ecologia (come il tedesco Johano Strasser, l’italiano Giorgio Ruffolo e il francese André Gorz), ma nel complesso i due fronti rimanevano distanti, spesso reciprocamente ostili, poco propensi a mettere in discussione il proprio retaggio e i propri riferimenti culturali.
Ora riprendere il dialogo è assolutamente necessario. I cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni – alcuni dei quali epocali e tuttora in corso, dalla rivoluzione informatica all’intelligenza artificiale – impongono un radicale ripensamento delle categorie fin qui utilizzate, pena l’irrilevanza e il declino.
La generazione nata e formatasi nel secondo dopoguerra è cresciuta nel guscio protettivo del “welfare” e nel mito delle socialdemocrazie nordiche: un trentennio di politiche keynesiane che non perdeva di vista le condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne, nella cornice di un’economia sociale di mercato. Ancora una volta fu la Spd, al congresso di Bad Godesberg nel 1959, ad indicare la via per la costruzione di un ordinamento moderno, fondato su valori come la libertà, la giustizia e la solidarietà, e dentro una griglia che comprendeva la giornata lavorativa di otto ore, l’assicurazione contro disoccupazione, malattia, invalidità e vecchiaia, la messa al bando del lavoro minorile, la protezione della maternità, il diritto di aderire ad un’organizzazione sindacale.
La generazione che si affaccia ora alla politica ha invece davanti a sé una costellazione alquanto diversa, molto meno definita nelle sue linee essenziali, fitta di interconnessioni locali-globali. Pensiamo ai mutamenti che hanno investito l’universo del lavoro (flessibilità, formazione continua, scomparsa del posto fisso, impieghi intermittenti, automazione dei processi produttivi); alle incognite derivanti dall’impazzimento del clima, che finiscono per ingrossare i flussi migratori; alle improvvise ondate pandemiche; al tentativo di smantellare l’impalcatura dei diritti, sia sociali che civili; all’esplosione di conflitti armati alimentati dalle grandi potenze; all’emergere di oligarchie svincolate da ogni controllo democratico. È questo un elenco parziale e sommario: Nouriel Roubini, nel suo libro intitolato La grande catastrofe (!), elenca dieci minacce in cui ogni speranza svanisce lungo “un viaggio accidentato in una notte molto buia”. Ian Bremmer – nel saggio Il potere della crisi – ne contempla invece “solo” tre: “Virus più pericolosi del Covid, il cambiamento climatico, tecnologie più intelligenti di noi”.
Se questi autori non sragionano, se le diagnosi degli scienziati non sono campate in aria, occorre reagire anche sul versante della politica, facendo spazio agli attivisti fortemente motivati, uomini e donne, e a nuovi strumenti d’organizzazione e di intervento. Socialismo ed ecologismo devono trovare il modo di incontrarsi e di fecondarsi a vicenda. E questo sulla base di un progetto comune, solido e coerente, non ricalcato su semplici “tracce” rosso-verdi. Il tempo delle alleanze temporanee e delle tattiche elettorali è finito. Solo erigendo una casa nuova con mattoni eco-socialisti sarà possibile evitare lo stato di fibrillazione in cui precipitano le sinistre di questo cantone ad ogni appuntamento elettorale. Quindi partito unico con doppia presidenza (un socialista, un verde), congressi unitari, una politica concordata sia a livello cantonale che federale, un’informazione coordinata. E infine un personale politico coraggioso e aperto, radicato nel territorio ma mosso dalla consapevolezza che molte sfide si vincono o si perdono a livello nazionale (e spesso sovranazionale).