Secondo una ben nota retorica, lo Stato dovrebbe gestire i propri conti esattamente come il buon padre di famiglia che, se oculato e responsabile, non fa il passo più lungo della gamba spendendo più di quanto guadagna. Sembra puro buon senso. Ma è risaputo che rifarsi al buon senso non incoraggia la riflessione critica e dà tutto per scontato, anche ciò che scontato non è. A parte che esistono, almeno per coloro che non sono fermi all’Antica Roma e al diritto romano, anche le madri di famiglia, che risultano altrettanto buone, se non migliori, non fosse altro perché magari sono rimaste sole ad affrontare le avversità della vita. Ed è pure risaputo che le famiglie, come pure le imprese, peraltro, spendono sovente più di quanto guadagnano.
Se ci si richiamasse acriticamente alla retorica ispirata al buon senso, senza operare nessuna distinzione tra i motivi dell’indebitamento, la Svizzera sarebbe piena di pessimi padri (e madri) di famiglia, viste le dimensioni del sovraindebitamento, spesso determinato da spese imprescindibili in ambito sanitario o educativo, e dell’indebitamento ipotecario, tra i più elevati al mondo.
Il punto è che non è necessariamente un male che le famiglie, come pure le imprese, s’indebitino per periodi più o meno lunghi. Semmai la questione è nella misura del debito, ossia nella sua dimensione e nella sua sostenibilità. Se così non fosse, se cioè per obbligo o per predisposizione nessuno spendesse più di quanto guadagna, non si capirebbe perché ci sarebbe bisogno di un sistema bancario più o meno esteso, né tanto meno dei mercati finanziari.
Eppure, secondo la retorica del buon senso, anche lo Stato dovrebbe comportarsi come il “buon padre di famiglia”. L’esortazione, indirizzata all’uno e all’altro, è: non accumulare debiti, assicurare il pareggio di bilancio e scongiurare il rischio di finire tra i nullatenenti.
La differenza è che quando lo Stato eroga risorse, “spende”, magari anche indebitandosi, crea reddito. Ce lo ha ricordato Florian Schui, professore a San Gallo, in un’intervista apparsa su laRegione il 3 marzo 2023. Il punto è che lo Stato, quando decide dove investire i propri fondi e le proprie risorse pensando alle ricadute nel lungo periodo, senza lasciarsi condizionare dall’esigenza di rendimenti a breve e brevissimo termine, opera a favore della sostenibilità sociale e ambientale e del benessere collettivo. Nulla di nuovo per coloro che guardano al ruolo dello Stato senza la zavorra di quel cascame ideologico che condiziona gli adepti del “Meno Stato”. Sguardo quanto mai necessario oggi a fronte dei problemi di portata epocale che si stagliano all’orizzonte. Tra questi la fine del modello svizzero, “A very Swiss identity crisis”, come titolava il Financial Times di sabato 25 marzo. E non è certo di buon auspicio per un Paese, che è pur sempre tra i più industrializzati al mondo, che a chiudere i battenti sia stata una grande banca, tra gli artefici dello sviluppo industriale del Paese tra Otto e Novecento, poi riconvertitasi in fabbrica di rendita finanziaria.
Non c’è dubbio che la crisi bancaria in corso, con il suo strascico recessivo (basti pensare alla stretta creditizia), determinerà un aumento dell’indebitamento pubblico a tutti i livelli istituzionali, portando acqua al mulino dei detrattori del ruolo dello Stato nell’economia. Eppure, come ebbe a dire Mariana Mazzucato a proposito della crisi pandemica, non sprechiamo questa crisi. Più precisamente, non lasciamoci accecare dalla retorica austeritaria secondo cui tutti devono fare la loro parte per contenere il più possibile il debito pubblico, socializzando le perdite dopo aver privatizzato gli utili.
Il debito del Cantone sembra effettivamente già elevato, addirittura superiore a quella misura che si auspica normalmente, senza però specificarne i perimetri (se non in termini di pareggio!). Inteso come capitale di terzi (7,3 mld nel 2021), il debito pubblico al netto dei beni patrimoniali (ben 5,1 mld nel 2021, di cui liquidità e crediti tra le tante voci), appare relativamente elevato in termini assoluti (2,2 mld nel 2021), ma abbastanza stabile, se non addirittura in diminuzione, prima dei periodi di forte crisi, mentre aumenta all’insorgere di questi ultimi, il che dimostra la sua funzione anticiclica. Non si può di certo sperare di passare indenni attraverso eventi dirompenti di portata sistemica, senza coinvolgere le risorse dello Stato e senza far capo alla sua capacità di reagire a tali eventi. Coloro che promuovono il meno Stato, che vogliono affamarlo, si aspettano ben altro quando in gioco vi sono i loro interessi.
Proseguendo l’analisi scopriamo anche un consistente volume di beni amministrativi nei conti dello Stato. Nel 2021 si tratta di ben 2,1 mld di franchi, tra cui strade, immobili, capitali di dotazione ad aziende ed enti, partecipazioni e capitali sociali e contributi per investimenti. Si tratta di un capitale sociale, frutto di investimenti, di cui beneficia la collettività, ma in particolar modo l’economia nello svolgimento delle sue attività produttive (la forza lavoro, fino a nuovo avviso, raggiunge le aziende su strade asfaltate).
E a proposito di investimenti, tra le spese correnti vi sono anche investimenti indiretti, ossia non contabilizzati come tali, come quelli destinati all’educazione e alla ricerca che, pur essendo considerati alla stregua di una qualsiasi spesa corrente, hanno in realtà ben altra valenza per gli individui e per il Paese. Tra le spese correnti prevalgono quelle per il personale. Ma questo significa redditi, contributi alle assicurazioni sociali, imposte e consumi.
Insomma, lo Stato non è affatto nullatenente, come si tende a far credere. Anzi, è del tutto legittimato a perseguire politiche attive di contrasto alla crisi recessiva e di rilancio dell’attività economica. Ben diversamente dalle politiche di contrasto all’inflazione con l’aumento dei tassi di interesse, che non fanno altro che appesantire il debito pubblico senza in realtà modificare alcunché (anzi), sarebbe auspicabile che lo Stato si impegnasse in un rilancio di politiche industriali, accompagnate da solidi investimenti in campo sanitario, sociale, formativo e culturale. Investimenti, non spese!