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Austerity, storia di un’idea assai dura a morire

Le politiche di taglio della spesa e ‘meno Stato’ hanno ottenuto quasi ovunque risultati negativi, eppure restano popolari

(Keystone)
3 marzo 2023
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"Le politiche di austerity applicate in diversi Paesi occidentali hanno portato tutta la sofferenza della stagnazione economica senza praticamente alcuno dei benefici promessi in termini di riduzione del debito, rilancio della crescita e del benessere". Comincia così ‘Austerity. The Great Failure’ (Austerity. Il grande fallimento), pubblicato qualche anno fa per Yale University Press dallo storico dell’Università di San Gallo Florian Schui. Un saggio ancora attuale, specie ora che le elezioni cantonali e federali si avvicinano e diversi politici ribadiscono la necessità di ridurre la spesa pubblica – magari insieme alle tasse – e contenere le funzioni dello Stato, secondo un principio di parsimonia che appare tanto economico quanto morale. Ma perché, nonostante i risultati, l’austerity continua a permeare il dibattito pubblico? Ne parliamo direttamente con Schui.

Lei sostiene che l’austerity sia sbagliata. Per alcuni – specie al di fuori delle facoltà di economia – si tratta di una generalizzazione esagerata. O no?

Beh, ho scritto il libro quasi dieci anni fa, ma mi pare che abbia retto bene il passare del tempo: in quasi tutti i casi, la ricerca economica ci fa vedere che tagliare la spesa pubblica durante o subito dopo una crisi causa un’ulteriore contrazione della crescita. Mi pare anche che da questa esperienza abbiamo imparato qualcosa: durante la pandemia abbiamo assistito a politiche fiscali e monetarie piuttosto generose, e si direbbe che sia stata un’ottima idea, visto che ci ha permesso di uscire dalla crisi in modo relativamente positivo.

Se di solito l’austerità non funziona, da dove viene la sua forza persuasiva?

È il risultato di diversi fattori. Anzitutto, in generale le persone tendono a concepire la spesa pubblica un po’ come quella personale, per cui si ritiene prudente e moralmente auspicabile ‘chiudere in pari’ e non indebitarsi (anche se molti in realtà prima o poi decidono di farlo, ad esempio se vogliono possedere una casa). Il problema è che il contesto pubblico è diverso: la spesa dello Stato ne condiziona anche le entrate, perché alimentare la crescita significa ottenere maggiori introiti fiscali. Inoltre, lo Stato controlla la stampa di moneta. Occorrerebbe insomma cambiare prospettiva.

La storia economica è anche un lungo dibattito tra gli ‘austeristi’ (da Aristotele a Friedrich von Hayek) e coloro che insistono sulla divergenza tra valori familiari e priorità macroeconomiche (Bernard de Mandeville con la sua ‘Favola delle api’, John Maynard Keynes). Qual è l’influenza del pensiero filosofico e religioso su tale confronto?

Quella che si direbbe venire dalla religione è una generale diffidenza verso il consumo, una condanna del lusso e degli agi eccessivi che ritroviamo poi in molti filosofi: si pensi per esempio alla critica della società mercantile elaborata da Jean-Jacques Rousseau. Ma il consumo pubblico ha una natura diversa: è collettivo – fatto insieme, non in competizione l’uno con l’altro, si pensi all’istruzione pubblica e alla ricerca medica –, quindi non vi rientra lo stesso egoismo.

Per molti è anche questione di libertà da uno Stato oppressivo: per Hayek la spesa pubblica non è negativa per via delle sue conseguenze economiche – che lui stesso riconosceva come potenzialmente positive, almeno a breve termine –, ma perché dà linfa a uno Stato invadente, che minaccia l’individuo.

Si tratta di un argomento-chiave per la tradizione liberista: Hayek scriveva basandosi sulle sue esperienze con le dittature europee degli anni Trenta, quando diversi governi si dimostrarono effettivamente i peggiori nemici dei loro stessi cittadini. Ma le dimensioni ideali dello Stato dipendono interamente dalla sua natura costituzionale: una democrazia può controllare uno Stato relativamente grande e frenarne le tendenze autocratiche. Inoltre, non si è liberi solo quando lo Stato non ci impedisce di fare quel che vogliamo; dobbiamo anche disporre degli strumenti per farlo. Nella storia europea, vediamo che la povertà ha danneggiato la libertà molto più spesso della spesa pubblica.

I giudizi di valore sull’austerity dipendono anche dall’attribuzione dei sacrifici che essa comporta. Lei scrive che "Karl Marx era d’accordo con Adam Smith sul fatto che solo astenendosi dal consumo è possibile accumulare capitale e dunque effettuare investimenti produttivi. Quello su cui non erano d’accordo era chi fosse costretto ad astenersi", rispettivamente i lavoratori o i capitalisti. Vale lo stesso per il dibattito odierno?

In effetti, si chiede spesso a chi ha meno di fare grandi sacrifici. Esprimiamo grande preoccupazione per chi approfitta del welfare, stigmatizziamo l’essere in assistenza e ci dimentichiamo del fatto che i più ricchi potrebbero partecipare al sacrificio molto più facilmente. Il che ci porta a una questione cruciale per la politica: quando si decide come e quanto spendere e tassare, bisogna cercare di capire chi davvero ne pagherà le conseguenze.

Austerity e ‘meno Stato’ diventarono molto popolari negli anni Ottanta, con i tagli promessi da Ronald Reagan ed effettuati da Margaret Thatcher. Che bilancio possiamo trarre di quegli anni?

Per fare un bilancio è importante decidere quale orizzonte temporale osservare. Al momento dell’elezione di Thatcher e Reagan era già in corso una recessione dovuta alla stagflazione. Le loro politiche peggiorarono le cose, insieme al rialzo dei tassi applicato per contrastare l’inflazione, il cosiddetto ‘shock di Volcker’ (dal nome dell’allora presidente della Fed, ndr). Ci fu poi un periodo di boom, in un contesto di tassi più bassi e tagli alle tasse per i redditi più alti. Ma attenzione, non furono questi tagli a determinare la crescita: nello stesso periodo si vide un forte aumento del debito pubblico per finanziare gli investimenti, ad esempio l’enorme spesa di Reagan in armamenti. Neppure Thatcher, l’icona di tutti gli austeristi, ridusse significativamente la spesa pubblica. Si trattò di politiche fortemente espansive: austerity e ‘meno Stato’ si dimostrarono formule retoriche, non fatti.

Un ulteriore argomento neoliberista è che una spesa pubblica vigorosa finisce per mettere in fuorigioco la libera impresa, scoraggiando innovazione e produttività.

Mi pare che si tratti di una lettura errata della storia economica. Pensiamo agli Stati Uniti, giustamente ritenuti più innovativi dell’Europa. Una narrazione molto diffusa attribuisce questo vantaggio a uno Stato limitato. Ma se guardiamo più da vicino, ci accorgiamo del fatto che molte delle innovazioni dominanti nel settore informatico dipendono dal fatto che già a partire dagli anni Cinquanta il governo statunitense ha investito parecchio, per scopi militari e civili, proprio in quei settori da cui poi sono emerse società come Google. La grande ricerca che ha reso possibile lo sviluppo di grandi idee è dunque dipesa da investimenti pubblici, mentre quelli privati tendono a privilegiare il rendimento sul breve termine. Mariana Mazzucato (docente di Economia dell’innovazione allo University College di Londra, ndr) lo ha illustrato molto bene nelle sue ricerche. È poi lo stesso che si è visto con lo sviluppo dei vaccini anti-Covid.

L’austerity gode di una rinnovata popolarità in relazione al cambiamento climatico: consumare meno risorse significa prendersi cura del pianeta, e alcuni si spingono fino ad auspicare una "decrescita felice". Lo stesso vale per la spesa pubblica: perché continuare a costruire autostrade e sostenere imprese inquinanti?

Si tratta di un tema di cruciale importanza, ma il legame tra crescita ed effetti negativi per l’ambiente non è automatico: si può spendere lo stesso ammontare per un’auto sportiva o per dei pannelli solari. Questo è tanto più vero quando parliamo del ruolo pubblico nella crescita, visto che proprio il settore pubblico può preoccuparsi di sviluppo sostenibile nel lungo periodo e investire di conseguenza in progetti verdi, senza gli stessi vincoli e pressioni al profitto immediato che il privato deve affrontare. Secondo il climatologo Mark Jacobson di Stanford, disponiamo già delle tecnologie necessarie per salvare il pianeta: si tratta di investirci.

Dopo un periodo di spesa straordinaria per affrontare la pandemia, molti ne invocano una riduzione e si assiste al rialzo dei tassi d’interesse, visto che l’economia sta ripartendo. Non è forse il tipo di intervento anticiclico che anche i keynesiani sostengono?

Ci troviamo di fronte a una doppia crisi: una domanda ridotta nel settore privato richiede il supporto della spesa pubblica, ma allo stesso tempo abbiamo a che fare con l’inflazione che potrebbe essere esacerbata da tale spesa. Credo sia opportuno affrontare l’aumento dei prezzi tramite interventi mirati che contrastino la speculazione e i rincari specifici, invece che in modo generalizzato con l’aumento dei tassi di interesse e tagli di spesa. Ad esempio, delle tasse sui profitti eccessive dissuaderebbero alcune società dall’aumentare speculativamente i prezzi. Possono funzionare anche tetti ai prezzi dell’energia e una riduzione dell’Iva. Il rialzo dei tassi rappresenta invece un’arma spuntata che finisce per ridurre l’attività economica. Serve a contenere l’inflazione, ma il prezzo da pagare è una crescita rallentata insieme a un aumento della disoccupazione.

In Svizzera, però, secondo alcuni l’austerity funziona: il debito pubblico è contenuto e limitato per legge, eppure la crescita è storicamente solida e il mercato del lavoro anche, pur con importanti eccezioni.

La Svizzera – come per certi versi la Germania – è spesso indicata come caso di successo dell’austerity. Ma questo è possibile perché ci si appoggia molto al lavoro dall’estero – sicché ogni aumento della disoccupazione generato da contrazioni economiche può essere letteralmente spinto oltreconfine – e a un forte surplus della bilancia commerciale. È un modo per rispondere al problema di una domanda interna relativamente bassa, senza spendere più soldi pubblici: esportare più di quanto non si importi, affidandosi a tassi di cambio favorevoli e sostenendo le imprese orientate all’esportazione. In Paesi piccoli come il nostro, questo funziona molto bene. Il problema è che equivale ad approfittare dell’accumulazione di debito da parte di altri Paesi, e qualcuno potrebbe cercare di contrastare il fenomeno: è il caso degli Stati Uniti, il cui nuovo pacchetto di stimoli è orientato al "made in America" ed esclude le società estere. La pressione internazionale potrebbe investire anche la Svizzera.

L’emergenza Covid ha spinto Bruxelles a strutturare un massiccio piano continentale di spesa pubblica. Cosa ne pensa?

Il trasferimento di risorse da regioni più forti a regioni più fragili – in termini sia di spesa che di investimento – è cruciale per qualsiasi federalismo. Per proseguire su questa strada, però, occorre un maggiore controllo democratico delle decisioni a livello continentale, oggi lasciate a un gruppo di ministri delle finanze che poi rispondono solo ai rispettivi elettorati nazionali. Sarebbe auspicabile lo sviluppo di un vero elettorato europeo, che garantirebbe decisioni più condivise sulle modalità e gli scopi che governano l’allocazione delle risorse pubbliche.