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Il mondo imprenditoriale e lo Stato

In un’intervista a ‘laRegione’ del 9 febbraio scorso, il direttore della Camera di commercio, Luca Albertoni, ha giustamente affermato che il mondo imprenditoriale ha bisogno di certezze. Egli non rivendica maggiore intervento dello Stato, ma condizioni quadro che permettano di affrontare i cambiamenti strutturali in atto, in particolare i nuovi e complessi parametri legati alle importazioni e alle esportazioni.

La questione è piuttosto seria e coinvolge l’intera classe politica; la quale deve chiarire a se stessa e al Paese quale rotta auspica per il nostro futuro. Inevitabilmente andrà posta la questione della relazione fra l’apporto pubblico e quello privato.

Già il filosofo Alexis de Tocqueville (1805-1859) individuò lucidamente il pericolo di un potere autoritario dello Stato: "Vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali al di sopra dei quali si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte". Ancora oggi la questione è attuale: se da una parte lo Stato dev’essere snello, forte, ma non soverchiante, nel promuovere la crescita economica e la coesione sociale; dall’altra deve potersi appoggiare sui vari corpi intermedi presenti nella società, come sostenne il grande filosofo Karl Popper: "Io sostengo che una delle caratteristiche di una società aperta sia di tenere in gran conto, oltre alla forma democratica di governo, la libertà di associazione, e di proteggere e anche incoraggiare la formazione di sotto-società libere, ciascuna delle quali possa sostenere differenti opinioni e credenze".

Due sono quindi i pericoli da evitare: lo statalismo fondato sui meandri della burocrazia e l’economia di mercato incontrollata, che assolutizza la libertà illimitata e favorisce alla lunga l’insorgere di molte disuguaglianze. Negli anni Novanta il periodo trentennale di deregolamentazioni ha aumentato i profitti delle grandi corporation e ha favorito l’abbattimento delle tasse delle multinazionali; ma più tardi, con la crisi del 2008 e il fallimento della gloriosa Lehman Brothers, lo Stato ha dovuto intervenire per salvare le banche e le corporation fallite sotto il peso della montagna di debiti fasulli. Di fronte ai problemi concreti non si può quindi mai essere né liberisti né interventisti, come sosteneva Luigi Einaudi, ma bisogna regolarsi a seconda delle contingenze: "La soluzione più conveniente non è sempre quella liberistica del ‘lasciar fare’ e del ‘lasciar passare’, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale o altro ancora" (cfr. La riforma sociale, 1931).

I compiti dello Stato sono essenzialmente tre: mediare fra le parti in gioco, suggerire nuovi scenari e garantire condizioni quadro favorevoli allo sviluppo e all’innovazione. Sappiamo che i mezzi a disposizione dello Stato corrispondono alla stratificazione sociale: in base ai dati fiscali del 2015, i contribuenti tassati erano 201’178, ma di questi ben 52’103, quindi un quarto della popolazione fiscale, erano esenti dal pagamento di qualsiasi imposta. E sappiamo pure che il 9,55% dei contribuenti assicura il 57,15% del gettito fiscale delle persone fisiche in Ticino. Questa situazione dovrebbe farci riflettere allorquando parliamo dei compiti imprescindibili dello Stato, quali i servizi, le infrastrutture e il sostegno sociale verso chi ha bisogno. In determinati casi (ad esempio durante la pandemia o in presenza di fattori esogeni) è pure doveroso e non solo auspicabile che lo Stato sostenga il mondo imprenditoriale, che costituisce il tessuto fondamentale della crescita del nostro Paese. Ha quindi ragione il direttore della Camera di commercio ad affermare che l’aiuto dello Stato dev’essere un’eccezione; ma ha altrettanto ragione nel chiedere allo Stato di "operare affinché le famose condizioni quadro restino buone".