Al di là di oceani verbali, retorici proclami, impegni presi e mai mantenuti, l’Africa Subsahariana chiude questo 2022 con un problematico bilancio su molteplici fronti. Il virus di Ebola è spettralmente riemerso in Uganda, dove si contano 22 morti nel solo mese di dicembre che si aggiungono alle 55 vittime registrate negli 11 mesi precedenti. L’epidemia di Covid ha inferto un ulteriore colpo alle già fragili strutture sanitarie, mettendo molte nazioni in ginocchio riducendo sul lastrico vasti strati della popolazione. Il conflitto russo-ucraino ha causato l’importazione di cereali, provocando 40 milioni di affamati e l’aumento dei prezzi di benzina e fertilizzanti. Povertà diffuse ed esasperate dalla desertificazione di un continente che fino agli anni Settanta era quasi autosufficiente dal punto di vista alimentare, e oggi assiste impotente a una diffusa siccità all’origine della carestia. Le nazioni africane subsahariane nei vari meeting internazionali hanno ribadito la loro contrarietà alle draconiane misure proposte dall’occidente per fermare il degrado ambientale spiegando che proprio l’Africa Subsahariana è il continente che inquina di meno e che ora subisce le conseguenze di dissennate scelte di altri. Una transizione ecologica come suggeriscono i Paesi più inquinanti sarebbe una ulteriore penalizzazione. Il 2022 si chiude con il conflitto civile tra Etiopia e Tigray in corso da due anni che ha già mietuto 500mila vittime e creato milioni di rifugiati e sfollati. Il trattato di pace firmato in Sudafrica resta una cornice perché il quadro va riempito di contenuti. I 12mila soldati inviati in missione di pace dall’Eac (Comunità dell’Africa Orientale) dovrebbero sovrintendere alla difficile pace in costruzione. La minaccia del terrorismo islamista incombe sul Sahel, in particolare su Burkina Faso e Mali dove solo quest’anno i jihadisti hanno fatto 9mila vittime. Gli atti di violenza sono quadruplicati dal 2019. E desta forti preoccupazioni il focolaio terroristico che infiamma Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. L’instabilità politica è un denominatore fin troppo comune per Mali, Guinea, Sudan, Ciad, Burkina Faso, Paesi dove dal 2020 a oggi i colpi di Stato hanno deciso la sorte dei cittadini. Falliti invece i golpe in Sao Tomé, Principe e Gambia. Resta impervio il cammino per la stabilità in Sudan. In Sudafrica dall’uscita di scena di Mandela nessun presidente si è rivelato in grado di guidare il Paese. Per fermare l’invasione cinese (principale partner economico dell’Africa Subsahariana con investimenti per 254 miliardi di dollari nel 2021 a fronte dei 64 miliardi americani), Washington ha favorito l’ingresso dell’Unione Africana nel consiglio di sicurezza dell’Onu e come membro permanente del G20. E c’è l’impegno per investire 55 miliardi di dollari in 3 anni per sviluppare economia, sanità e sicurezza ovvero il settore militare e delle armi.
La "corsa per fare del bene" all’Africa è cominciata. Gli attori sono tutti interessati a ritornare protagonisti, come negli anni della guerra fredda. Il continente subsahariano resta strategico ma c’è anche la consapevolezza di un nuovo colonialismo più pericoloso e invasivo del passato.