La questione delle migrazioni è da decenni al centro delle preoccupazioni della popolazione e della politica. Fino a qualche anno fa il dibattito verteva essenzialmente sulla qualifica di rifugiato politico, ossia se il o la "richiedente d’asilo" fosse realmente vittima di persecuzioni a causa del colore della pelle o del gruppo di appartenenza, della religione o delle sue opinioni politiche. In questa lista spicca l’assenza della "miseria", lacuna che un celebre vignettista romando aveva abilmente riassunto nella frase: "Il vero rifugiato rischia la vita perché protesta per le sue condizioni mentre il falso rifugiato la rischia per le proprie condizioni". Le modalità e le condizioni d’accoglienza miravano innanzitutto alla selezione e solo in un secondo tempo e in casi limitati ad una efficace integrazione.
Più recentemente abbiamo accolto decine di migliaia di persone in fuga dall’Ucraina grazie allo statuto S di cui possono beneficiare gruppi di persone esposte a un grave pericolo e che concede un diritto di soggiorno senza espletare una procedura di asilo ordinaria e garantisce immediatamente alcuni diritti.
La prima domanda che dovremmo porci è probabilmente cosa differenzia gli ucraini dai siriani, dagli afghani, dalle donne iraniane o da altre popolazioni fuggite da situazioni talvolta peggiori da giustificare un atteggiamento di apertura del tutto dimenticato nel nostro Paese dai tempi della primavera di Praga.
La seconda è cosa avverrà in futuro. È infatti utopico pensare a una normalizzazione della situazione a breve-medio termine e anche se ciò dovesse avvenire molti di loro preferiranno restare in Svizzera anche nel nobile intento di meglio aiutare la famiglia o gli amici rimasti in patria.
Dobbiamo prendere per acquisito che le migrazioni saranno un fenomeno costante e irreversibile che sarà accentuato dalla crisi climatica. Si tratta spesso di persone che fuggono da situazioni tutt’altro che provvisorie e spesso intenzionate a restare a lungo, almeno fino a quando saranno in condizione di rientrare nel loro Paese garantendo un’esistenza degna al loro clan, esattamente come succedeva nelle nostre valli fino a qualche decennio fa. Avendo lavorato 3 anni in Ruanda per l’aiuto allo sviluppo svizzero ho potuto constatare di persona come le condizioni di vita e soprattutto la mancanza di prospettive per migliorarle siano un forte incentivo alla migrazione soprattutto per i giovani meglio istruiti.
Il loro arrivo è anche una grande opportunità per il nostro Paese confrontato ormai a un declino demografico preoccupante. Cogliamo l’occasione per trasformare questo fenomeno in un esercizio vincente per entrambe le parti. Generalizziamo le misure messe in atto per accogliere gli ucraini a tutti i movimenti di popolazione indipendentemente dalla distanza geografica o dall’etnia offrendo opportunità di formazione e di lavoro esigendo però non solo il rispetto delle leggi formali, ma anche l’adozione di alcuni valori imprescindibili quali il senso civico o l’uguaglianza di genere. La vera discriminazione sarebbe quella di prestare loro una minore capacità di comprensione rispetto a determinati valori inclusi nella Dichiarazione universale dei diritti umani.
La recente mobilitazione popolare a favore di una famiglia monoparentale originaria dell’Afghanistan minacciata di espulsione e la susseguente risoluzione interpartitica che chiede al Governo di intervenire presso la Segreteria di Stato della migrazione sono un segnale positivo nella giusta direzione.