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Brasile e il crash test della democrazia

A due anni di distanza dall’assalto al Capitol Hill di Washington, i fan di Bolsonaro invadono i palazzi del potere a Brasilia: esito e interrogativi

(Keystone)
9 gennaio 2023
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Adesso abbiamo anche il "copia e incolla" internazionale della tentata sovversione populista. Da Washington 6 gennaio 2021, a Brasilia 8 gennaio 2023. Più o meno la stessa data, più o meno lo stesso copione, e la stessa falsa motivazione di elezioni presidenziali truccate. Stavolta, nella capitale del gigante latinoamericano (celebrato capolavoro iper-modernista, disegnato dall’architetto Oscar Niemeyer) sono state migliaia di seguaci dello sconfitto presidente Jair Bolsonaro (sconfitto da Lula da Silva, socialista al terzo mandato) a prendere d’assalto la spianata del Planalto, coi palazzi dei ‘tre poteri’: parlamentare, presidenziale, giudiziario. C’è chi ha opportunamente e subito ricordato la battuta di Marx, per cui "la storia si ripete sempre due volte, la prima è tragedia, la seconda è farsa". E farsa si è rivelata l’"insurreição brasileira" in versione domenicale, quindi a sale deserte. Gente come a un gigantesco pic-nic, magliette coi colori nazionali, bermuda, qualche infradito, pance un po’ troppo gonfie, e la facile devastazione di ciò che là dentro era devastabile. Soprattutto ha immediatamente colpito il teatrino delle parti: la prima reazione delle sparute forze dell’ordine, agenti che respingevano gli assalitori con lo spray urticante, altri in posa selfie, altri ancora che dirigevano il traffico dei rivoltosi.

Allora perché tanto allarme? Perché le breaking news dei principali network mondiali? Quali timori poteva trasmettere un siffatto "populismo eversivo", quello di potenti registi che si servono del popolino, affidandogli missioni impossibili?

La risposta più immediata e più semplice è anche la più vera. Per alcune ore ci si è chiesti non se l’attacco potesse avere per sé stesso una qualche chance di successo, ma come avrebbe reagito l’esercito già protagonista e responsabile, in un passato non troppo remoto, di feroci dittature: quindi se potesse approfittare della flebile miccia accesa a Brasilia per tentare un nuovo atto sovversivo e armato, un rovesciamento violento del processo democratico, insomma un "golpe de Estado". Il legame fra l’ispiratore (passivo?) Bolsonaro e i militari era infatti cosa risaputa, alimentato dallo stesso ex capitano con le sue sperticate lodi al putsch del passato, quindi legittimamente temuto, emerso anche in campagna elettorale: infatti Il presidente poi sconfitto (non in larga misura ma abbastanza chiaramente) aveva voluto al suo fianco come candidato vicepresidente il generale Souza Netto, da più parti indicato come l’anello di congiunzione fra l’uomo che aveva difeso addirittura le torture della dittatura e i "bolsonaristi" in ebollizione, da settimane visibilissimi, accampati-tollerati persino attorno al quartier generale delle forze armate a Brasilia. In uno degli ultimi discorsi prima che si aprissero le urne, queste furono del resto le parole rivolte agli ufficiali del capo di Stato uscente: "Siete voi il baluardo contro il socialismo".

Quindi quello di domenica appare anche come uno stress test importante se non cruciale (e magari nemmeno definitivo) sulla lealtà istituzionale delle forze armate. Che quella lealtà democratica hanno pubblicamente ribadito nelle ore dei disordini attorno e dentro i palazzi del Planalto. Non un piccolo risultato politico per l’ex sindacalista ed ex detenuto (ingiustamente) Lula, che potrebbe addirittura migliorare la sua non altissima popolarità post-elettorale. Indiretto smacco per Bolsonaro, che a 40 giorni dal voto si involò verso gli Stati Uniti, naturalmente in Florida, a due passi dalla villa di Mar-a-Lago, la super-lussuosa dimora dell’ex presidente, pensionato e forse grande evasore Donald Trump (è una delle accuse a suo carico), l’amico e ispiratore presso cui Jair ha festeggiato il Natale. Che ha comunque taciuto fin quando è stata del tutto evidente la sorte dei rivoltosi, e alla fine li ha disconosciuti e condannati: anche perché un’accusa provata di collusione l’avrebbe escluso da una prossima eventuale rivincita elettorale.

Non che l’indiretto vantaggio che ne può trarre l’anziano Lula lo sollevi molto dall’eredità che si è caricato sulle spalle. Un Paese nettamente diviso in due (anche con risvolti razziali, il Sud bianco nettamente più a destra), gli uffici dell’alta burocrazia dove i funzionari bolsonaristi sono numerosi, una crisi economica che non fa più del Brasile uno dei motori Brics (Paesi esportatori di materie prime, 15 anni fa in via di tumultuoso sviluppo), dove 10 milioni di persone dovrebbero vivere con meno di due dollari al giorno, dove un bambino su sette nemmeno può andare a scuola; un’economia malata di monocoltura e deforestazione, in cui giocano un forte ruolo anche fameliche multinazionali; chiese ultraconservatrici protestanti e pentecostali di importazione nordamericana, che potrebbero rendere minoritaria in pochi anni quella cattolica.

Infine, di fronte al numero comunque molto elevato e socialmente diffuso dell’elettorato reazionario, la constatazione per tutti che il problema non è riconducibile al solo Bolsonaro, ma al bolsonarismo inteso come espressione di populismi negazionisti ed eversivi: che oggi si danno la mano dagli Stati (dis)Uniti d’America al più vasto e popoloso Paese del subcontinente, ma domani chissà. Fenomeno sovranazionale di fronte al quale le nuove debolezze della democrazia sembrano complicare la possibilità di trovare antidoti efficaci.

Questo contenuto è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il blog naufraghi.ch.

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