Ho letto con interesse due articoli apparentemente in contrasto fra loro, apparsi ne "laRegione": uno in rifermento alla recente questione dei livelli nella scuola media; l’altro in relazione alla problematica dell’andicap nella società attuale. Quest’ultimo, di Marzio Proietti direttore di "Inclusione andicap Ticino", articola le sue considerazioni sugli ostacoli che ancora ci sono nei diversi settori della società, che sono del tutto vergognosi, come ad esempio nella stazione ferroviaria di Taverne. Sbaglia però l’autore dell’articolo a prendersela con una frase sull’inclusione, tolta dal contesto dell’articolo inerente alla scuola di Aron Piezzi, membro della Commissione scuola del Gran Consiglio. Quest’ultimo pone correttamente la questione se l’inclusione scolastica debba essere un mezzo o un fine. La qual cosa è assai diversa rispetto al mondo dell’andicap, per il quale l’inclusione deve significare l’inserimento dei portatori di andicap nella società, senza barriere fisiche o psicologiche. Ma ciò non vuol dire che, una volta superate le discriminazioni, dette persone non possano svilupparsi in modo diverso a seconda degli interessi e delle loro capacità. Lo stesso vale per la scuola: le condizioni di partenza devono essere garantite a tutti, indipendentemente dall’estrazione sociale degli allievi. E la scuola fa già molto in questa direzione. Ciò però non significa che il cammino degli allievi debba essere sempre comune nell’acquisizione degli stessi obiettivi e contenuti. Questo è quello che pensa da più tempo il Decs e forse anche alcuni docenti che hanno seguito un percorso tradizionale di studi accademici.
Il recente Messaggio sull’abolizione dei livelli non fa che ribadire l’idea che solo attraverso gli stessi contenuti si possano raggiungere uguali obiettivi per tutti gli allievi. Eminenti pedagogisti smentiscono questo assunto, anche perché una simile impostazione può diventare persino offensiva nei confronti degli allievi che hanno interessi e forme di intelligenza diversi. La ricchezza della scuola consiste nel saper offrire, accanto alla parte comune dell’insegnamento, percorsi diversificati inerenti agli approfondimenti disciplinari e agli aspetti applicativi, mediante anche l’uso delle moderne tecnologie. L’articolo di Piezzi pone chiaramente anche una questione linguistica, usando opportunamente la parola "diversificazione" al posto di "differenziazione", per evidenziare la ricchezza e non le contrapposizioni dei vari percorsi curricolari. Anche la parola "inclusione" andrebbe usata correttamente nel significato letterale, in quanto essa implica di per sé l’atto di includere, vale a dire di inserire un elemento all’interno di un gruppo o di un insieme. La qual cosa socialmente è lodevole, ma per la scuola limitante, se si pensa che lo sviluppo intellettivo degli allievi deve potersi "dischiudere" prima o poi in forme diverse.
La politica è chiamata ad affrontare nei prossimi giorni la questione; perciò essa deve avere ben in chiaro il suo ruolo, che non è quello di entrare nel merito delle questioni pedagogiche (codocenza, laboratori o altro), ma quello di stabilire precise norme di legge. Nel Messaggio del Decs le modifiche della Legge SM sembrano essere relegate in secondo piano, differibili a dopo la sperimentazione. Niente di più sbagliato, in quanto la sperimentazione deve potersi basare su un modello che trova una certa condivisione politica. Più partiti hanno espresso, in sede di consultazione, l’idea di prevedere dei momenti opzionali. Perché il Decs non ne tiene conto e persegue un modello di inclusione totale, unico in Svizzera se non a livello internazionale?
Io auspico che la politica, per il bene della scuola pubblica e degli allievi, sappia aggiornare l’Art. 7 della Legge della SM, nel senso di prevedere per alcune materie, accanto alla parte comune a tutti gli allievi, una parte diversificata fra corsi di approfondimento e corsi di applicazione. La condizione affinché si superi l’attuale sistema, di per sé anche discriminante, è che questi corsi abbiano la stessa qualità e contribuiscano a definire meglio le attitudini degli allievi nelle note o giudizi di fine anno della licenza unica. Questo è il vero compito della scuola: interpretare le diversità degli allievi e metterli in condizione di esplicare i loro interessi; e non obbligarli a seguire percorsi uniformi in un confronto che può diventare noioso o frustrante.