Se qualche anno fa si parlava del migrante come ‘materiale umano difficilmente assimilabile’, oggi si parla di ‘carico residuale’
Stato di diritto e migranti sono le due facce della stessa medaglia. Sì, perché se ben ci pensate, la missione primaria dello Stato di diritto è la promozione e la protezione della dignità delle persone (quindi rispetto dei diritti e delle libertà e garanzia dello stato sociale – non vi è stato di diritto senza il principio di solidarietà). Non si può essere fautori del primo e, allo stesso tempo, discriminare e osteggiare i secondi. Ma succede: forme di nazionalismo virulento ci avvertono che il nemico è alle porte e rivendicano il diritto di selezionare chi può far parte della comunità nazionale e chi no, tenendo fuori dai confini gli estranei. Trova ostentata applicazione questa visione nei cosiddetti Stati illiberali: non contemplano il pluralismo e la valorizzazione delle differenze.
Pure nella compassata Svizzera ci sono stati, nella gestione dei migranti, scompensi che offendono il principio dello Stato di diritto: certo, ci vogliono regolamenti e disposizioni, ma i brutali respingimenti, le espulsioni con le manette ai polsi, gli smembramenti famigliari, i minori respinti, i migranti che languono in alloggi malsani sono episodi documentati.
Ho sempre pensato che l’indifferenza verso gli altri sia il peggior veleno in circolazione. Ho l’impressione che la grande idea della dignità umana, uguale per tutti, sia tradita nel mondo attuale e certi orientamenti lo confermano. Quando si parla di diritti, per alcuni protagonisti della politica non è lecito allargare troppo il discorso: c’è un’umanità a pieno titolo, e un’altra che di titoli ne ha di meno. La differenza la cogliamo nel modo in cui sono trattati i migranti: come se non fossero come noi, bensì dei corpi senza identità e senza affetti, un dato statistico da registrare.
Scrissi alcuni anni fa che, al cospetto di certi spettacoli, avevo la sensazione che la politica avesse toccato il fondo. Chiara Volpato, docente di politica sociale, mi spiegò che era in atto un processo di deumanizzazione: faceva del migrante un essere incompleto e inferiore, privo "delle nostre virtù", senza un’identità personale. Stava diventando triste consuetudine una politica fatta di muri e confini e soprattutto di una separatezza culturale che non riconosceva una condizione umana comune ed egualitaria. Era una politica che ammetteva il diritto di emigrare, ma non quello di immigrare. Pensai allora che peggio non poteva andare. Mi sbagliai: c’è di peggio.
Se qualche anno fa si parlava del migrante come "materiale umano difficilmente assimilabile", oggi il governo Meloni ha introdotto il concetto ancor più osceno di "carico residuale" e la "selezione" è diventata un dogma. È sdoganata in questo modo "la politica dello scarto" e chi ha memoria storica sa di tristi precedenti. In questo caso la destra-destra, in nome di "Dio, Patria, Famiglia", ribadisce con vigore la funzione strumentale del migrante: al servizio della Nazione e pazienza se qualcuno ci lascia la pelle.
Lo squallore di certi comportamenti conferma il sospetto: l’incultura governa la politica e stiamo tornando indietro. Chi avrebbe immaginato che fra le altissime cariche dello Stato italiano, antifascista per costituzione, ci potessero essere un ex picchiatore (appassionato collezionista delle statue del Duce) e un simpatizzante dei gruppi neonazisti (omofobo incallito, con tre lauree ma giganteschi problemi di ortografia)? È la carta d’identità voluta dalla Meloni.
Mi pare lecito affermare che l’immaginario postfascista nulla abbia a che vedere con lo Stato di diritto. Il fascismo storico, quello degli Eia Eia Alalà, è morto e sepolto, dicono quelli dei salotti buoni. Ma Umberto Eco avvisa: il Fascismo Eterno è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Condivido.
La sensazione è sgradevole: anche nella nostra società occidentale la gloriosa triade (liberté, égalité, fraternité) si sta sgretolando, e con lei si incrina la miglior formula che l’uomo abbia concepito nel Dopoguerra, quella dello Stato democratico liberale. Lo sfrenato liberismo di questi decenni, antidemocratico per natura, ne ha sfasciato i fondamenti: ha promesso il benessere per tutti e ha promosso il benessere per pochi, ha generato crescenti diseguaglianze e ha messo in discussione la solidarietà delle politiche sociali. Il risultato è quello ribadito da un senatore americano citato dal sociologo Zygmunt Bauman: "The Haves and the Have Nots", ci sono quelli che hanno diritti e quelli che non ne hanno, quelli che detengono la ricchezza e quelli che detengono la povertà.
L’ignoranza in politica è tale che alcuni personaggi non esitano a dipingere il futuro con gli ingredienti del cinismo e della disumanità. E noi siamo lì, in platea, ad assistere allo spettacolo osceno e allo scempio dei diritti umani: cittadini passivi, un po’ ottusi, che avallano e talvolta applaudono i comportamenti indecenti dei reggitori e li assimilano alla normalità. Il nuovo mondo propugnato dai leader populisti, a cui tanti idioti di ritorno affidano il loro futuro, dovrebbe sorgere all’insegna del sovranismo intriso di xenofobia e razzismo, ossia promuovendo i mali che hanno devastato il mondo e le coscienze pochi decenni fa.
In Ticino c’è chi, nei dibattiti parlamentari, fa delle distinzioni giuridiche per giustificare la diversità di trattamento dei migranti, chi mette in primo piano i contributi finanziari che gravano sui cittadini, chi ricorda che abbiamo già dato e chi riduce il tutto a una questione di competenze. Tutto legittimo, per carità! Ma ad ascoltare certi interventi l’impressione è che ogni tanto si perda di vista la centralità della dimensione umana. Io credo che un primo passo in avanti lo faremo quando a premessa di ogni discorso sui migranti si porrà il "rispetto della dignità delle persone, delle libertà fondamentali e della giustizia sociale" (lo suggerisce la costituzione). Un altro passo lo faremo quando capiremo che quella dei migranti non è un’emergenza, ma la normalità del presente e del futuro. Un terzo passo lo faremo quando cominceremo a considerare l’inclusività un ingrediente indispensabile per la salute della democrazia liberale. Se neghiamo tutto questo, beh, per coerenza dovremo dire che lo Stato di diritto è ormai acqua passata.