La violenza in rete ferisce e infierisce, all’improvviso, dal nulla. Senza avviso e spesso senza neanche un motivo. La violenza virtuale può ferire seriamente e lasciare cicatrici che fanno male anche a distanza di anni. Perché la rete, ahimé, non dimentica. E perché sui motori di ricerca o tra i contenuti suggeriti dagli algoritmi, possono riapparire anche a distanza di anni profili o post che riaprono le ferite.
È un problema grave, esacerbato dalla velocità con cui si diffondono i contenuti violenti nei social media e dalla quasi impossibilità di eliminarli. E a differenza della violenza e del bullismo nel mondo reale, quello in rete non lascia momenti di tranquillità a chi ne è vittima, perché online si è raggiungibili sempre e ovunque.
L’editoriale di Roberto Antonini, pubblicato da LaRegione martedì scorso, ha messo in luce le dinamiche fuorvianti e faziose dietro ai discorsi d’odio sui social. Pregiudizi che in realtà sono già accuse, che non concedono il beneficio del dubbio o l’opportunità di spiegare e magari sciogliere i malintesi. Il web condanna, senza dare possibilità di difendersi. E spesso, troppo spesso, mancano le basi legali per intervenire e le strutture per chiedere e ottenere aiuto.
La violenza in rete è in crescita, sia nelle forme che nella sua diffusione: nelle ultime settimane i media ticinesi hanno riferito di hate speech, revenge porn, cyberbullismo e sexting. Mancano statistiche ufficiali, ma vari indicatori lasciano intuire la serietà del problema: le vittime sono sempre di più, sempre più giovani, e sempre più indifese.
Succede, purtroppo, quando i fenomeni evolvono troppo in fretta rispetto alle reazioni politiche e giuridiche. Proprio per questo negli scorsi mesi ho depositato tre interpellanze e un postulato: mancano statistiche affidabili, non ovunque esiste un programma di prevenzione adeguato nelle scuole e mancano strutture di aiuto alle vittime. Sul piano istituzionale siamo terribilmente in ritardo: serve una presa di coscienza e servono adeguamenti legislativi.
I tempi della politica federale però, si sa, sono lunghi. E allora cominciamo noi a reagire sul piano e sul profilo individuale: un “semplice” click, un like, una “reazione” possono colpire con una violenza smisurata quando vengono condivisi da decine, centinaia o migliaia di utenti. Evitiamo di lasciarci travolgere da certe dinamiche e di prestarci al gioco della violenza. È un buon modo per proteggere altri e altre, ma in fondo anche per proteggerci: finché esiste violenza in rete ognuno e ognuna, senza eccezioni, potrebbe esserne la prossima vittima.