L’esperienza dell’autogestione luganese è chiamata a definire il proprio futuro non solo alla luce delle risposte repressive che riceve dal Municipio
Sarà capitato anche a voi, in certi frangenti, di vivere quella particolare condizione mentale per cui si fa e rifà un ragionamento, si cerca il bandolo della matassa e poi, alla fine, qualcosa non funziona, non torna. È quello che provo da tempo rispetto ad alcune dinamiche vissute, viste o riportate, che riguardano l’esperienza attuale dell’autogestione a Lugano.
Non è certo l’idea di autogestione che mi fa dubitare, che mi lascia non poche perplessità, ma alcune sue modalità di funzionamento e di comunicazione.
Sgombro subito il campo da possibili equivoci: per me è chiaro che la battaglia, la lotta per il riconoscimento e la difesa di uno spazio fisico per un centro sociale deve essere condivisa e supportata non solo dagli anarchici ma da tutta la sinistra e da tutti coloro che riconoscono il diritto di espressione, di proposte culturali e ricreative alternative e non istituzionali, di antagonismo politico.
Ma a volte mi trovo a pormi la questione se sia poi così vero che proprio nel campo dell’autogestione questi bei concetti e principi vengano perseguiti da tutti. Per quello che ho potuto osservare e vivere negli ultimi anni, c’è, lì dentro, una zona grigia di non facile interpretazione. Ci sono situazioni e manifestazioni in evidente contraddizione con slogan, prese di posizione e comunicati carichi di slanci ideali.
Non è certo mia intenzione porre ora al centro la mia personale esperienza di vicinanza a un movimento che nel tempo è cambiato e oggi, di fatto, non mi considera più in alcun modo un interlocutore autorizzato. Davvero non è questo il problema, e non sono certamente spinto a proporre queste riflessioni per becero spirito di rivalsa. Proprio per nulla. Mi preme piuttosto sollevare ed evocare alcune situazioni che mi sembrano allontanare dall’esperienza dell’autogestione diversi giovani che negli ultimi tempi si sono avvicinati al Molino. Mi dispiace che questo avvenga, mi rattristano i modi in cui questo avviene.
Per chi segue, anche su ‘Naufraghi/e’, il podcast ‘Macerie’, che racconta e fa risuonare voci, ricordi, testimonianze di chi ha dato vita e sviluppato questa incredibile esperienza collettiva di resistenza, risulterà lampante la legittimità di indignarsi verso l’incapacità o la non volontà di coglierne la valenza da parte delle autorità. La realtà dell’autogestione ha una propria storia, che ha dato esiti importanti, per nulla trascurabili, in tutto il Ticino e oltre. Voler negare questa storia, appiattendola intorno a definizioni denigratorie è semplicemente alimentare una narrazione becera tutta improntata all’autoassoluzione di Municipio, polizia e apparati vari.
Ma detto questo, con onestà intellettuale bisognerebbe aprire gli occhi anche su dinamiche e modi di fare meno appariscenti e per certi versi un po’ subdoli che si manifestano all’interno del Csoa. L’ultimo decennio è trascorso con alti e bassi, con confronti duri e anche di rottura che hanno minato in parte l’esistenza stessa del movimento.
Che oggi ci sia rabbia, confusione e disorientamento è più che legittimo. Che ci siano senso di rivolta e odio vomitato a destra e a manca un po’ meno. Che in sede assembleare non si accettino visioni e osservazioni “non allineate” espresse pacatamente, liquidandole con modi saccenti, crudi e prepotenti non credo sia segno di una maniera diversa di intendere il confronto rispetto a quella delle deprecate autorità.
Naturalmente non è questione di “verginelle” da difendere, ma l’inclusione, il rispetto e la solidarietà devono saper forgiare anche la visione e l’azione “antagoniste” a partire dall’interno del movimento. Inutile e preoccupante è, a mio giudizio e per quel che so dall’interno, propagandare e diffondere comunicati “blindati”, frutto magari anche dell’allontanamento e dell’emarginazione di chi sostiene posizioni magari più sfumate e meno radicali.
In questo c’è una gran differenza tra la genesi del Csoa e quello che produce e muove la realtà antagonista odierna. Oggi c’è molta rabbia, ma non è solo un sentimento e vissuto collettivo per quello che è accaduto negli ultimi tempi. È un disagio mal incanalato che ha portato a fare scelte opinabili finendo per incancrenire la spinta a rigenerarsi e per chiudere di fatto ogni possibilità di evoluzione.
L’impressione è piuttosto che oggi si rischi di perdere il filo del discorso e che si sia abbracciata una pratica settaria, autoreferenziale, chiusa a riccio, volta alla difesa a oltranza per paura di essere contaminati. Una sindrome che si manifesta spesso, ma a corrente alternata. Da una parte si gongola se in piazza c’è sostegno, se il peso dei simpatizzanti appare cospicuo e tangibile, ma dall’altra, se si arriva a parlare di dialogo, non va bene nulla, perché in ogni possibile interlocutore si vedono solo difetti e malafede.
Un’ambivalenza disarmante e controproducente. Lo si è visto per esempio con il collettivo R-esistiamo che denuncia giustamente le precarie e inique condizioni di migranti, ma poi se altri gruppi sensibili al tema cercano di aggregarsi per creare un fronte più solido e costruttivo, beh, allora declina con modi patetici ogni forma di collaborazione.
Osservando queste dinamiche, la conclusione più plausibile porta a pensare che si ragiona secondo il motto “O sei con me (al mille percento, ti omologhi al mio unico modo di pensare di fare di essere), o sei contro di me (e non vali niente, non ti faccio esistere!)”.
È quello che troppi giovani hanno vissuto avvicinandosi e cercando di partecipare alla realtà attuale di un Molino espatriato e alla deriva un po’ anche a causa di sé stesso.
Anche nell’ultima azione simbolica di occupazione, i promotori hanno fatto intendere che ci sarebbe stato un evento – pranzo conviviale e spazio per declamare poesie — che invece è servito a camuffare le vere intenzioni del raduno. Usare l’altro, altri ignari dei tuoi fini, non è strategia da guerriglia urbana o da azione diretta, ma semplicemente una manipolazione!
La realtà dell’autogestione oggi vive ancora un tangibile sostegno di parte dell’opinione pubblica, quella sconcertata dal comportamento poliziesco e autoritario del Municipio. Ma deve sapere anche affermarsi come un fronte capace di sostenere le proprie posizioni in un confronto che si renderà necessario, prima o poi, e che richiederà al movimento una sufficiente maturità e capacità di affermare i propri ideali e un progetto di “futuro dell’autogestione” che possa accogliere tante esperienze diverse in maniera davvero inclusiva. Dire sempre e soltanto “no” farà tristemente soltanto il gioco di chi l’autogestione la vuole omologata o spazzata via.
*Associazione Idea Autogestione
Questo contenuto è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il blog naufraghi.ch