In un editoriale del 2 dicembre laRegione interviene sul tema Buone Feste/Buon Natale, con riferimento alla neolingua dell’Unione europea che in un primo tempo aveva suggerito ai propri funzionari di abolire l’augurio di “Buon Natale” ma poi, di fronte alle proteste miste a facili sbeffeggiamenti, aveva ritenuto di fare un passo indietro. Con garibaldino coraggio, l’editorialista prende le difese della Commissione di Bruxelles e si lancia a sua volta in una serie di spumeggianti argomentazioni: occorre a ogni costo – sbotta infastidito, e giustamente – “fermare l’avanzata del Natale”, “altrimenti ci troviamo abeti con le palle ad agosto”. Incrocia poi la spada – e condivido – con chi “le famose radici cristiane le concepisce come utili a farci randelli da usare in politica”.
Abbandonate spade e randelli, l’editorialista scende infine sul terreno delle statistiche e vi scopre “il punto più importante”: se nel 1970 i cristiani in Svizzera costituivano il 90% della popolazione e oggi, dopo 50 anni, raggranellano a fatica un modesto 60%, la lezione è semplice: “Non c’è bisogno di dichiarare ‘guerra al Natale’, per l’erosione della religione basta sedersi e aspettare”. È di fronte a questo, che il generale De Gaulle avrebbe definito vaste programme, che abbandono ogni traccia di ironia ed esprimo la mia delusione.
Lo faccio in primo luogo con un richiamo alla storia, rubando le parole a papa Francesco (sul volo di rientro dal suo recente viaggio a Cipro e in Grecia): “È un anacronismo [il riferimento è appunto al documento dell’Ue sul Natale]. Nella storia tanti, tante dittature hanno cercato di farlo [sc. cancellare il Natale e il cristianesimo] (…) pensa alla dittatura nazista, a quella comunista… è una laicità annacquata, acqua distillata… Ma questa è una cosa che non funzionò durante la storia”. Da qui Bergoglio trae spunto per un richiamo all’Unione europea (che non ridurrei a una “randellata” politica): “L’Unione europea deve prendere in mano gli ideali dei Padri fondatori, che erano ideali di unità, di grandezza, e stare attenta a non fare strada a delle colonizzazioni ideologiche. Questo potrebbe arrivare a dividere i Paesi e a far fallire l’Unione europea. L’Unione europea deve rispettare ogni Paese come è strutturato dentro. La varietà dei Paesi, e non volere uniformare” (ecco un assist del tutto involontario all’improba fatica di Cassis...).
Voglio solo aggiungere un paio di domande, del tutto serie. Non è compito di tutti gli uomini di buona volontà, intellettuali e giornalisti compresi, anziché sedersi e aspettare compiaciuti il diradarsi della polvere sulle ultime macerie di una civiltà sorta dal cristianesimo, interrogarsi su ciò che ne sta prendendo il posto? Non si vogliono terrorizzare i benpensanti con truci scenari da donne in burqa e moschee (magari stupende) a sostituire le chiesette che dominano i nostri villaggi dai poggi più alti. Si vuole richiamare l’attenzione sul fatto che il nulla che avanza, a colpi di TikTok, sta spazzando via insieme alle loro radici cristiane ormai (all’apparenza) del tutto inaridite anche i fiori più belli della cultura illuminista (come ad esempio una scienza che non sia serva della tecnica e un’economia che non approfondisca la disuguaglianza).
Di fronte ai deserti di solitudine che spengono, soprattutto in chi è più giovane, ogni sete di bello e di bene, ogni ricerca di verità e felicità, aggravando patologie di violenza e di autodistruzione, non è giunto il tempo di un vero dialogo, se non di un’alleanza educativa, tra chi ha proposte ideali e disponibilità a mettersi in gioco per un bene comune, sacrificando autoreferenzialità (che siano cristiane, laiche o sessantottine) e reciproci sbeffeggiamenti?
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Ringrazio Claudio Mésoniat per avermi reso attento a un ‘mauvais pas’ in quel mio breve testo: l’utilizzo della metafora delle radici cristiane. Perché, certamente, un albero senza radici è destinato a fare una brutta fine ma gli esseri umani, e le società, non sono alberi ed è tutto da dimostrare che, superando il proprio passato, rischino l’infausta sorte di un platano sradicato.
Concordo che non mancano i segnali poco incoraggianti sul futuro della nostra società; dissento sul fatto che un ritorno alla religione come elemento costitutivo del vivere comune possa essere la soluzione a questi problemi: forse aveva ragione Chesterton (o chiunque fosse il vero autore della frase a lui attribuita) che “chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente perché comincia a credere a tutto”, tuttavia credo e spero ci sia modo, anche fuori dalla religione, di non credere a tutto.
Detto questo, auguro a Claudio Mésoniat – che sono ragionevolmente sicuro celebri questa importante festività cristiana – un sincero buon Natale.
Ivo Silvestro, giornalista Culture e società