Molti giovani preparati lasciano o non tornano in Ticino. A giusto titolo la questione sta ritornando in auge, perché nessuna regione può a lungo andare sopportare l’esodo delle sue risorse umane migliori. Occorre tuttavia ricordare che i movimenti di emigrazione fanno ovunque parte della storia e condizionano profondamente la realtà sociale ed economica, certo anche in senso positivo, laddove emigrazione e immigrazione tendono a equilibrarsi.
Il Ticino è stato da sempre terra di emigranti, con una sorta di “emorragia” iniziata nel Medioevo e intensificatasi al tempo dei baliaggi, quando i “migliori” hanno lasciato tracce indelebili in tutta Europa, da Roma a Odessa, da San Pietroburgo a Londra (https://www.artistiticinesi-ineuropa.ch). Poi vennero le ondate migratorie della povertà, dall’Ottocento fino a Novecento inoltrato: chi ebbe successo non tornò, gli altri tornarono senza arte e con scarsa parte. Su queste vicende sono state scritte pagine brillanti, ad esempio da Giorgio Cheda e Renato Martinoni.
Ma la storia recente va rintracciata a partire dal dopoguerra. Negli anni ’50, al Ticino si ripresenta la possibilità di riscattarsi dalla povertà e dalle indigenze che la storia gli ha riservato. Lo fa cedendo al dolce suono delle sirene del guadagno facile: i “posti sicuri” delle regie federali e dell’amministrazione, l’esplosione del settore bancario grazie ai miliardi di nota provenienza, la speculazione edilizia, le attività produttive sul confine che sfruttano la manodopera a basso costo… In poche parole, l’opposto di quanto necessario per sviluppare un’economia strutturalmente solida, creativa, ad alto valore aggiunto e capace di attingere alle risorse di capitale umano disponibili. La storica fragilità dell’economia ticinese, che mai è stata in grado di generare una propria capacità imprenditoriale (salvo qualche eccezione), viene così a cementarsi e diventa cronica proprio in un contesto di alta congiuntura e all’ombra di un benessere crescente. E nulla possono i molti e saggi richiami di personalità come Brenno Galli o Francesco Kneschaurek. Qualche segno di mutamento si delinea a partire dagli anni 80, quando il mondo del lavoro comincia ad arricchirsi di aziende tecnologicamente già all’avanguardia che osano affacciarsi sui mercati internazionali, una tendenza che sembra potersi affermare con l’istituzione dell’Usi e della Supsi, entrambe chiamate a dare un contributo significativo, culturalmente ed economicamente. Ma nonostante indubbi successi, con aziende di punta e iniziative scientificamente importanti, il Cantone fatica a perdere il vizio e voltare pagina: buona parte dell’economia continua a muoversi dentro le coordinate del basso valore aggiunto. Anche AlpTransit per intanto non fa miracoli. Ma questa è solo una faccia della medaglia, quella della politica economica. L’altra attiene alla politica formativa che corre in parallelo. Con la legge della scuola del 1958 si perde l’occasione di dare alla formazione in Ticino un futuro che avrebbe potuto contribuire a rinnovare e rafforzare il tessuto economico. Invece di porre mano alla formazione professionale, da sempre imperdonabilmente negletta, si cerca il riscatto – accanto al guadagno facile – esclusivamente nella prospettiva accademica. Così il Ticino diventa terra di licei, con investimenti considerevoli, e avrà ben presto e fino a oggi il tasso di maturità e di universitari fra i più alti di tutta la Svizzera. È nell’ordine normale delle cose che buona parte di chi va a studiare non rientri in Ticino. Nel contempo la formazione professionale continua a rimanere la cenerentola, il cosiddetto piano B, se proprio non va bene la strada del liceo. E ciò ha avuto – e continua ad avere – un doppio disgraziato effetto: una formazione professionale debole non contribuisce allo sviluppo di un’economia forte (e viceversa) e inoltre alimenta indirettamente l’esodo dei migliori dal Ticino, essendo ben noto che chi fa una formazione professionale, anche di alta qualifica, tende molto meno ad andarsene di chi va via a studiare.
Quindi, se si vuole affrontare l’esodo delle intelligenze ticinesi alla radice, una scelta (fra le diverse) fondamentale attiene alla politica formativa: la formazione professionale deve diventare una componente strategica (senza nulla togliere al percorso liceale) per un futuro diverso del Ticino, in particolare per un’economia ad alto valore aggiunto e tecnologicamente all’altezza dei tempi.