Gli anniversari sono benvenuti. Riannodano i fili con il passato. Fanno felici gli storici, i giornalisti, gli editori, qualche volta anche i politici, se il personaggio da ricordare permette di rinverdire antichi fasti. Ma Napoleone? È giusto, è auspicabile che il nostro cantone, che deve la sua nascita all’iniziativa del Primo Console di Francia, gli renda il dovuto omaggio a duecento anni dalla morte? La domanda è stata riposta da Sandro Guzzi su queste colonne («Povero Napoleone», 12 maggio). In realtà, non è che il Ticino si sia completamente scordato di lui. Nella capitale, in via Dogana, una targa lo celebra: «Bellinzona/è riconoscente a/Napoleone Bonaparte/che con l’atto di Mediazione/del 19 febbraio 1803/ha costituito/il cantone Ticino/designandola /capitale». Però è vero, non brilla, non colpisce, e i passanti nemmeno la notano tant’è minimalista. Ma chissà, forse è meglio così, chi l’ha ideata e posata non voleva correre rischi, glorificare un personaggio certamente «grande», ma non per tutti. Non lo è stato, ad esempio, per chi ha dovuto subire le sue imprese, l’occupazione della «grande armée», i poveri «sapeurs» bleniesi che nel novembre del 1812 contribuirono a costruire un ponte di legno sulle acque semi-ghiacciate della Beresina, così da permettere all’esercito in rotta di guadare il fiume. Adam Zamoyski, nel saggio Marcia fatale pubblicato dalla Utet, riporta la testimonianza di un ufficiale finito nell’orrendo parapiglia: «… le strade erano coperte di corpi maciullati, carri fracassati, bagagli a pezzi, e si udivano solamente grida, invocazioni, pianti e lamenti […]. Ricordo che in una delle vie salvai dagli zoccoli di un cavallo un neonato in fasce che giaceva in mezzo alla strada, e poco oltre vidi, accanto a un ponticello, il carro di una cantinière immerso nell’acqua; vi era stato spinto dai soldati francesi che marciavano davanti a noi, e sul carro la povera donna, con un bambino in braccio, chiedeva un aiuto che nessuno di noi poteva prestarle».
Padre Callisto Caldelari, nel suo ricchissimo volume Napoleone e il Ticino, edito nel 2003, rammenta che un progetto per erigere un monumento a «Napoleone il Grande» fu concepito e approvato dal Gran Consiglio nel corso della seduta del 13 maggio 1805, «volendo esternare i sentimenti di gratitudine, di amore e di riconoscenza de’ quali è penetrato verso S.M.I. e R. Napoleone il Grande. Pacificatore del Continente, Restauratore della religione e degli Altari, Mediatore della Svizzera e protettore della sua integrità, ed indipendenza». La commissione, subito formata, propose un monumento nella foggia di una «lapide di marmo ornata di una cornice parimenti di marmo, ben lavorata, quale verrà riempita a caratteri d’oro d’una iscrizione analoga al fine per cui si erige». Non se ne fece nulla, probabilmente perché altre faccende premevano con la forza dell’urgenza.
Dovremmo ora rimediare onorando il Bonaparte con un monumento finalmente all’altezza della sua fama? Dal nostro punto di vista, di ticinesi non più sudditi ma cittadini elevati al rango di confederati, potremmo anche farlo. Ma poi, allargando lo sguardo e aguzzando la vista, faticheremmo ad ignorare il resto, le invasioni, le campagne militari, la legittimazione della schiavitù, il tradimento degli ideali della Rivoluzione francese, il Codice civile che privava le donne dei diritti appena conquistati. Perfino la Francia, paese più di altri sensibile alla «grandeur», non ha manifestato in questo bicentenario quel trasporto che ci si attendeva.
E poi ora i tempi non sorridono agli edificatori di monumenti, busti, statue, mausolei, cenotafi. Anzi, gli attivisti sedotti dalla cultura della cancellazione («cancel culture») propendono per sopprimere ogni segno considerato offensivo al loro modo di intendere la civiltà e il progresso, la correttezza politica o la morale. Come se fosse possibile riscrivere la storia alla luce nei nostri attuali schemi mentali. Purtroppo il passato non ci consegna mai solo gesta esemplari e figure luminose. Hegel affermava che la storia del genere umano è un «gran cimitero». In quest’opera Napoleone primeggiò come pochi. Figlio dell’89, credette di esportare i princìpi rivoluzionari nel continente sulla punta delle baionette. In questo senso è da considerare il precursore delle «guerre umanitarie» che colorarono di rosso sangue il crepuscolo del Novecento nei Balcani e nel Medio Oriente.