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L’importanza del fattore C

La riflessione di Marco Züblin a proposito del ruolo decisivo che il caso ha avuto in quello che siamo

(Keystone)

Questo contenuto è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il nuovo blog naufraghi.ch

Non pochi ritengono di trovarsi nel posto che occupano (in società, nel lavoro, negli affetti) per tutta una serie di motivi, quali l’aspetto fisico, l’intelligenza, l’acume o la furbizia, la simpatia, l’impegno. Ben pochi invece hanno la costante percezione del ruolo, decisivo, che il caso ha avuto in quello che siamo.

Un po’ di lucidità permetterebbe di avere non intermittente coscienza che il fattore C è l’elemento fondamentale del nostro presente e del nostro destino. Basterebbe pensare che quel baldo bancario luganese, con grisaglia e spocchia d’ordinanza, si trova lì dov’è solo per una fortunata e immeritata congiunzione astrale, per un mero caso; discorso che vale anche per qualche tronfio governante nostrano, spesso con l’aggravante che questa gente è lì dov’è nonostante terrificanti carenze culturali, formative e intellettuali, e solo per l’insipienza e la distrazione degli elettori (in quel caso, fattore C2).

Nulla sostiene la tesi che il bancario, o il politico, di cui sopra abbiano acquisito prima della nascita il diritto di uscirsene da lombi agiati e affettuosi, con sufficiente raziocinio e buona salute fisica, in un Paese ricco e tranquillo e dotato di eccellente sistema formativo; e non, ad esempio, in una famiglia monoparentale siriana o palestinese, nella miseria più nera, sotto le bombe e in preda a vessazioni di ogni tipo, magari fisicamente e/o intellettualmente menomato. Non vi è nessun motivo, proprio nessuno, perché qualcuno possa né pretendere di avere (avuto) il diritto alla buona sorte che gli è capitata, né quindi che possa permettersi di calare giudizi su coloro che il suo formidabile culo esistenziale non l’hanno avuto, e addirittura decidere del loro destino.

Una riflessione che bisognerebbe fare sempre, almeno per un attimo, prima di parlare di coloro che cercano da noi una vita migliore di quella che è capitata loro in sorte; quando viene chiesto di dare un aiuto, che costa poco o nulla (soprattutto a un Paese come il nostro), a persone che hanno storie tremende, disperate, illuminate solo dal tenue bagliore di una speranza legata a un viaggio periglioso e a un approdo incerto. La politica, certa politica, pensa ben poco a queste cose, quando prende decisioni che impattano in maniera tragica sulla vita delle persone più deboli e più fragili, decisioni che prende ancora più a cuor leggero, e senza sensi di colpa, se i destinatari dei provvedimenti non sono dei “nostri”; anzi, sembra che proprio la tragicità dei destini altrui sia vista come imparabile legittimazione per decisioni contro le vittime.

Naturalmente, questo tipo di riflessione (ancorché di minimo impegno) non può essere richiesta a tutti; in particolare, non al gollum leghista, che declina – non solo a fini elettorali ma ogni settimana, gratuitamente, nelle cassette – il primanostrismo in ogni aspetto della vita, anche nella socialità; ma, se ci pensiamo bene, anche in questo caso occorre essere compassionevoli per un destino privato che, pur nella straordinaria e immeritata fortuna, è stato cinico e baro anche in questo caso.